ilariapuglia

mai più dietro un pilastro

Archivi per il mese di “gennaio, 2013”

Iodio. Il caleidoscopio della commessa

Io odio quelle commesse. Quelle con l’aria da santarellina, la frangetta alla Catherine Spaak, la gomma da masticare in bocca tipo traino per roulotte, le unghie curate e il cervello sfatto. Tanto sfatto che quando chiedi “voglio un maglione rosso”, ti rispondono, annoiate e stanche, “rosso non c’è, lo vuole blu?”. Ma ti pare che se io lo volevo blu non te lo indicavo nel novero delle possibilità? Aspettavo te e la tua aria da esistenzialista perduta in un film francese in bianco e nero?

Io odio quelle commesse. Perché, lo so, fanno un mestiere complicato, o meglio, fanno un mestiere che deve piacere e molte sono costrette a farlo. Ma non per questo se la devono poi prendere con me e con quelle che, come me, entrano solo per comprare e non per vedere mille cose come galline in cerca di becchime.

Io odio quelle commesse. Perché vedono il cliente come la cartella di Equitalia e si spingono oltre la noia esistenzialista e ti pongono domande che manco Jean Paul Sartre al suo acme. Un giorno entro e chiedo un paio di stivali, uguali a quelli in vetrina. Numero 40. La Catherine Spaak di Chiaia mi risponde: “il 40 non c’è ma abbiamo il 38, calza largo”. Ora, io posso capire che tra il rosso e il blu tu mi prenda per cretina e dici “a questa le posso rifilare l’intero caleidoscopio”, tu ci provi cara mia e io lo apprezzo pure, ma sul 40 e 38 che ci provi? Mi taglio il tallone davanti a te per farti contenta e vederti meno annoiata e più presente?

Io odio quelle commesse che trovano un alleato stupido e da Grillo Parlante, un alleato insospettabile: mio/vostro/nostro/loro marito. Tu già te lo porti appresso come una gomena che non sai dove sistemare perché viene e si rompe e già dice “ma un solo negozio non basta?”, come se ti avesse conosciuta ieri, come non sapesse che tu massimo due  ne visiti, poi ti viene il mal di testa come il giorno dell’esame di maturità. Insomma: quando pure hai passato la prima prova con la commessa di turno, quando pure hai infilato quel vestitino avion che ti piaceva tanto, ebbene quando vedi che addosso a te quel vestitino cola come un cielo pieno di smog in un mattino milanese, tuo marito-gomena guarda la commessa, la commessa guarda tuo marito-gomena e insieme esclamano: “Però male non ti sta, affatto, poi tu sei magra, qualsiasi cosa che metti ti sta bene, giusto un po’ qui dietro le spalle si deve forse stringere”. Forse insieme a quella stretta dovrei anche asportarmi senza anestesia una scapola, decisamente di troppo perché, a scapito di come calza il vestito, con quella scapola potrei gonfiare come una zampogna il marito-gomena e la commessa-Jean Paul Sartre?

Io odio quelle commesse. Quelle che tu scegli il pantalone che ti piace e prima ancora di chiedere la taglia giusta loro ti guardano come a pesarti un tanto al chilo sulla bilancia del mercato e poi se ne escono: “sei una 44, vero?”. No, tesoro, sono una 42. Mo tira ad indovinare quanti pensieri ti dedicherò stasera, va’.

Io odio quelle commesse. Quelle che ti assalgono appena metti piede in un negozio. Quelle che tu entri timida timida e con le cuffie nelle orecchie, come se il fatto non fosse tuo, per non dare nell’occhio, perché cerchi solo il capo giusto per te che ti chiami dalla stampella o dallo scaffale e quelle ti rovinano la poesia piombandoti addosso come falchi che litigano per una carcassa abbandonata. Scappo sempre, a quel punto, da quelle commesse, di filato.

Io odio quelle commesse. Quelle che tu entri, vai allo scaffale o alla stampella ed è chiaro che hai scelto quell’abitino grigio scuro di lana semplice semplice, con quel fiore fucsia sulla spalla un po’ scesa, dal taglio particolare perfetto per una serata di primo novembre da passare all’aperto. E allora lo stacchi dalla stampella o lo tiri giù dallo scaffale e te lo sistemi sul braccio per portarlo in camerino e farlo assaggiare al tuo corpo. E vai da quelle commesse sorridendo, ma loro sono riunite in un gruppetto a vociare, si guardano le unghie e parlano sguaiate, si raccontano avventure sconce e litigate con i fidanzati e nessuna, nessuna pensa che forse tu sei lì per comprare un capo. È a quel punto che, se il vestitino ti piace proprio assai, dici solo: “lo prendo”. Senza provarlo. Poi al massimo lo conserverai nell’armadio e lo maledirai ogni volta al solo pensiero di quelle commesse. Se invece non ti piace quanto occorre per sorvolare su quelle commesse, glie lo rimetti a posto mentre ti pregano di restare. E te ne vai a mani vuote, pure se dopo ti viene il rimorso.

(da http://www.parallelo41.net)

Iodio. La suocera, il suocero e l’igloo

Io odio le suocere che fanno le suocere a prescindere, cioè quelle che dimenticano di essere prima di tutto donne e mamme. Quelle che pensano che i loro figli siano perfetti, che l’hanno sempre pensato, rovinandoli, e rovinando, assieme ai loro figli, le donne che li hanno scelti come mariti. Io odio le suocere che dicono “mio figlio è sempre stato indipendente” e a cinquant’anni ancora gli lavano le mutande e gli preparano il pranzo. Quelle che hanno cresciuto i figli come dei minorati psichici, confidando nella bontà delle future mogli, non insegnandogli mai a farsi il letto, abbinare calzini ai pantaloni o prepararsi un uovo sbattuto. Però i loro figli sono indipendenti, eh.
Io odio le suocere che fanno preferenze tra i figli delle figlie femmine e i figli dei figli maschi, perché quelli dei figli maschi, prima di essere nipoti, sono figli delle mogli dei loro figli. Non so se ho reso l’idea.
Io odio le suocere che vanno a trovare le nuore e, mentre quelle sono distratte, passano il dito sui mobili per vedere se c’è polvere e poi sorridono beate. Ma che ci sarà da sorridere non si sa.
Io odio le suocere che a ottant’anni hanno una vita sociale più viva di una quattordicenne: e il burraco, il teatro, il cineforum, ma una giornata a casa con i nipoti no? Mai?
Io odio le suocere che fanno sentire colpevoli le nuore se mandano i figli a scuola perché lavorano. Dove siete quando c’è bisogno di voi? Ah già: in vacanza. Tutto l’anno.
Io odio le suocere che: “Cosa compro ai bambini a Natale?”. Ma santa pace un’idea, una, sui tuoi nipoti, non ce l’hai mai?
Io odio le suocere che ti tengono al telefono per ore a parlarti di malattie, morti, esami clinici e medici, che hanno sempre un problema, che può essere pure un’unghia incarnita, ma col quale loro si riempiono la bocca e a te riempiono il cervello. E le devi stare pure a sentire, perché sono suocere. No.
Io odio le suocere che manifestano il meglio il sabato e la domenica, quando aspettano l’avversaria nuora nella loro tana: a pranzo a casa loro. Uno aspetta il weekend con tanto desiderio per porre fine alla quotidiana lotta del lavoro ed ecco che arriva il ring più decisivo: il pranzo a casa della mamma di lui. Lì si gioca la guerra dei nervi, la sottile arte della diplomazia, l’incontro dei lunghi coltelli. Anche perché, diciamolo, ci sono suocere che alzano sempre il gomito: o sono troppo presenti e vogliono educare, crescere, badare e invadere i nipoti con le loro moine e le loro grazie e i loro gesti oppure fanno le suocere assenti.
Io odio le suocere che se il figlio non vuole andare a pranzo da loro con la famiglia la domenica non è mai colpa sua ma sempre della moglie. Che poi vorrei capire perché una nuora non dovrebbe essere sollevata all’idea di non dover cucinare, una volta tanto. Nonostante i lunghi coltelli.
Io odio le suocere anaffettive. E ce ne sono.
Io odio le suocere che quando la nuora ingrassa trenta chili in gravidanza vanno a trovarla a casa e, mentre quella prepara il caffè, loro le danno una pacca sul culo, le soppesano i glutei e poi sbottano: “Certo te ne ci vorrà di tempo per smaltire questa roba qua”. Da omicidio.
Io odio le suocere che le riconosci dagli orecchini e dalla bocca. Gli orecchini sono sempre fuori misura, o troppo brilluccicosi, perché devono farli notare, come a dire “questi erano della nonna, della zia, della prozia, quindi comportati bene perché non è che i tuoi lobi meritino tanto”, oppure orecchini troppo grandi, per dire “ho messo la prima cosa che avevo sul comò, ho osato troppo?”. E poi la bocca. Di vari tipi. A culo di gallina, per dire “puoi cucinare la faraona, mettere i fiori freschi nel vaso, ma sempre mezza calzetta sei”, oppure aperta, manifesta, all’americana, per dire che lei sarà “un’amica, di più, una mamma, la seconda, quella di scorta”. Ma di mamma ce n’è una. Tu resti una suocera.
Io odio le suocere perché mi inquietano soprattutto le donne che dicono: “Io più fortunata non potevo essere, mia suocera è meravigliosa, per me è un’amica”. Pure mia suocera è meravigliosa, ma vogliamo ammettere senza finzioni e senza pensare di essere le più brave e le più fortunate al mondo che comunque una suocera è l’incontro con un’altra mentalità, un altro modo di vedere le cose, un’altra cultura, e che comunque in mezzo c’è – aspetto più importante – un uomo che lei si è presa la briga di crescere, educare, emozionare e che ora passa così, come un’auto già rodata, nelle mani di un altro automobilista? Nel migliore dei casi bisogna mettere nel conto una serie di scosse telluriche di assestamento. Nel migliore dei casi (la mia auto è una bomba, eh, chiariamoci, ma il rodaggio l’ho fatto anch’io).
Io odio le suocere che le loro figlie femmine sono sempre le migliori, anche quando fanno cacca in mezzo al salotto, che invece se la facessero la nuora o il figlio maschio la cacca nel salotto, sarebbe: “che orrore, vivete come lazzari”. Sì, lazzari, ma felici.
Io odio le suocere perché in questo quadro chi veramente esce come un pugile suonato, come un calciatore che ha giocato anche i supplementari sotto un acquazzone è lui, il suocero. In perenne imbarazzo, non sa che pesci prendere davanti alla moglie e davanti alla nuora, si rifugia – a seconda delle passioni, del carattere e dell’inclinazione – nel calcio, nel cibo,  nella scrittura di sterminati libri che nessuno mai pubblicherà né leggera. Costruisce una catena, un igloo attorno a nuora e suocera. Le imprigiona per non vederle. Ma quelle vedono sempre lui, che perciò ci va sempre di mezzo. Nel migliore dei casi, l’igloo lo ghiaccia. Nel peggiore dei casi, la catena lo strozza. Insomma, crepa sempre, il suocero. Solidarietà.

(da http://www.parallelo41.net)

Cori razzisti allo Juventus Stadium. Cannavaro, che aspetti a fare il Capitano?

Due parole sui cori juventini contro i napoletani che ieri sera hanno “riscaldato” lo Juventus Stadium. Due parole su ieri partendo 
da qualche settimana fa. 

Quando è successo quello che è successo con Boateng (http://www.ilmessaggero.it/sport/calcio/cori_razzisti_milan_patria
_busto/notizie/241846.shtml
), il Napoli non ha detto niente. Non si è schierato unito e compatto con il Milan forte del fatto che, da 
sempre, noi napoletani siamo vittime del razzismo negli stadi. Addirittura, alcuni tifosi napoletani hanno colto l’occasione per 
rallegrarsi, perché finalmente anche i milanisti provavano sulla loro pelle le offese razziste. Che quasi gli stava bene, che adesso toccava a loro dopo anni che era toccato a noi. Non un gesto pieno e deciso di solidarietà. Soltanto la solita morale: finora a noi, adesso a voi. Beccatevela e portatevela a casa. A parte pochi “folli” isolati che addirittura si sono azzardati a scrivere, nei social, “Boateng grande uomo”, rischiando, talvolta, il linciaggio. 

Dopo poco, Marchisio ci definisce, in un’intervista, antipatici. E noi giù ad offenderci, a vederci calpestati nei secoli dei secoli. Lui dice 
che gli siamo antipatici? Noi rispondiamo “ti romperemo il culo”. Lui dice che quando sa di giocare contro il Napoli gli scatta qualcosa? 
Noi rispondiamo inventandoci un’applicazione sul telefono che si chiama “picchiamo Marchisio”. O siamo più intolleranti, razzisti e 
violenti noi, oppure semplicemente dei frustrati. Talmente abituati ad essere sottomessi che quasi non ci divertiamo più se non c’è 
qualcuno che ci ricorda che siamo dei poveretti, neri neri come il “creaturo” della Tammurriata nera. E in questo è complice la società, 
che firma un comunicato sull’affare Marchisio in cui definisce le parole dello juventino “una grave offesa” e pretende il suo chiarimento. Come una zita contignosa.

Errore grave. Gravissimo. Perché se stiamo sempre a lamentarci di essere trattati da schiavi, finisce che poi ci abituiamo e, soprattutto, che si abituano gli altri a trattarci così. E allora finisce che si gioca una partita allo Juventus Stadium, dove noi non c’entriamo nulla, perché la Juve gioca contro l’Udinese e non contro il Napoli, e perché non c’è niente di più lontano da quello stadio del nostro, sia come calore che come novità della struttura (loro, quantomeno, hanno dei bagni) e comunque, dal pubblico, parte quel coro contro di noi: “Oh Vesuvio lavali tu”. Noi che non stiamo giocando lì, ma che per gli juventini siamo il chiodo fisso che perfora l’anima, a maggior ragione adesso che siamo così vicini e gli alitiamo sul collo. Il tutto davanti agli assistenti di gara, ciechi e sordi, come al solito, del pubblico pagante, di milioni di spettatori in Italia e nel mondo. Ma poiché è consuetudine che i napoletani siano trattati così, che nessuno si ribelli, il gioco va avanti, nonostante la giustizia sportiva preveda pene che vanno dalla semplice multa alla sconfitta della squadra a tavolino. Nessuno sente. Tutto normale. Perché i napoletani, di solito, piangono. Perché ci schifano e quindi i cori contro di noi assumono quasi un’aura di rassicurazione. Per noi, proprio. Perché nel momento in cui non ci schiferanno più avremo perso ogni punto di riferimento. Saremmo costretti a guardare in faccia la realtà, e cioè che possiamo fare qualcosa anche noi, ribellarci, insorgere, considerarci il centro del mondo, batterci per avere uno stadio decente, servizi normali, una vita “giusta”. Se si inneggia al Vesuvio per lavare i napoletani vuol dire che è tutto in ordine, che stiamo tutti bene. Avanti così. 

Però. Però c’è la Pro Patria. Già coinvolta nel caso Boateng, ieri le è stata sospesa la partita con il Casale, valida per il torneo giovanile Berretti. Fabiano Ribeiro, giocatore del Casale, riceve un insulto razzista e lo staff della squadra, dopo essersi consultato con i calciatori, decide di non giocare più. La partita viene sospesa e gli atti passati alla Procura Federale. Dunque, accade. Si può mettere la parola fine a un’idiozia come i cori razzisti, a un’ingiustizia come il non rispetto del regolamento. A un’ignominia come le offese urlate in uno stadio, che dovrebbe essere la patria del fair play e dello sport.

Adesso possiamo invertire la rotta anche noi. Abbiamo un capitano che torna oggi dopo un’ingiustizia grave. Gli è stato macchiato l’onore con l’accusa di illecito sportivo, o almeno col sospetto. Per giorni. E a noi è stato messo un asterisco accanto al punteggio a macchiare la classifica. Adesso, però, è tornato e si può ricominciare daccapo. Mai una volta, finora, Paolo ha pensato di interrompere la partita in caso di cori razzisti. Mai. Il non denunciare in campo cori razzisti equivale a non denunciare la proposta di combine. Nel suo caso non c’è stata nemmeno la proposta e infatti è stato assolto. Ma se di nuovo dovesse “non sentire” i cori contro i napoletani mentre si gioca una partita, sarebbe “colpa”. Non per la giustizia sportiva, trasandata e malaticcia, ma per la morale comune, per la giustizia tout court, quella degli uomini. Non me ne voglia Paolo. Ma a volte bisogna anche tirare fuori le palle, per vincere, nella vita. A parte la difesa a 3 o a 4 o il ruolo di difensore centrale. E allora, che colga al volo l’occasione, Cannavaro, per fare davvero il capitano. Non si riduce tutto a una fascia sul braccio, ma a un cuore da leone e a un carattere da fiera assatanata. Ci sono gli strumenti. Se fai il cieco e il sordo anche tu non sei degno di essere un capitano. E non c’entra niente la combine.

Iodio. Abbassa i pantaloni. Ti faccio l’iniezione

Io odio te che odi Iodio. Sì, te. Perché sicuro lo odi, anche se non me lo dici, e io non vedo l’ora di avere i commenti al sito per scoprirlo, presto, e allora potrai commentare anche questo (tieni a mente il tuo odio: nutrilo).
Io odio te che odi Iodio perché per te un fulmine è un fulmine e il sole è il sole. Perché per te che odi Iodio 2+2 fa sempre 4. Perché hai sempre una spiegazione per tutto. Perché fai fitness o sei appassionato di discipline orientali, di certo. Perché pratichi la calma, ma quando fa comodo a te. Ecco perché odi Iodio. Perché Iodio ti scombussola dalla testa ai piedi, ti fa vedere la forfora che produci sulla nuca, quella alle tue spalle, che gli altri vedono e che tu neanche immagini. Ti smuove i capelli, Iodio, e quella forfora cade, e allora sei costretto a guardarla. E tremi e corri in farmacia a comprare lo shampoo per annientarla.
Io odio te che odi Iodio perché Iodio è la sorella che hai chiuso in casa perché brutta e racchia. Iodio è il tuo alito pesante dopo che hai bevuto molto e devi incontrare una donna. Perché Iodio ti fa male, perché Iodio sei tu, perché anche tu provi odio, ma pensi sia peccato. Perciò Iodio non ti piace e meno ancora ti piace chi lo scrive, cioè io. Iodio ti ricorda che non sei perfetto, che non puoi averla sempre vinta, libera in te quella cosa che pensavi di aver sconfitto e dominato: l’aggressività. Perché non vuoi accettare che siamo anche animali e a volte reagiamo come tali. Perché fai l’avvoltoio in cachemire e Iodio ti spoglia. Tu sei vestito. Io sono nuda. Tu sei grasso, pieno di odio, io magra, perché evacuo.
Io odio te che odi Iodio perché mi dici che troppo odio mi farà male, ma non capisci che odiare a prima mattina è catartico, perché insegna ad amare. Io odio te che odi Iodio perché mi dici che poi divento stucchevole, perché ti fa paura che qualcuno ti dica cosa odia e che quell’odio riguardi anche te. Io odio te che odi Iodio perché mi dici che se mi incontri sulle strisce pedonali a Roma magari mi arroti, ma poi mi dici anche che scherzi, ma io sulle strisce pedonali a Roma ci vengo lo stesso, e ti dico pure quando, così, poi, vediamo se mi arroti o mi offri il caffè.
Io odio te che odi Iodio perché a te la vita non deve coglierti impreparato o almeno credi: sicuramente porti sempre l’ombrello nello zaino, magari anche uno spolverino, perché non si sa mai, ed è meglio evitare quella fitta dietro la scapola. Perché tu niente dolori e niente stress, magari usi anche la lozione per capelli per frizionarli perché cominci a perderli. Magari fai pure piscina, perché fra i 30 e i 40 è bene pensare al proprio corpo. Perché forse hai una donna di scorta, una in panchina, una a casa, una in ufficio, perché ti fa sentire tanto frescone e “omm”.
Io odio te che odi Iodio perché magari sei una donna, e allora ti piace praticare la buona forma, mai un ruttino, un’unghia spezzata, un ponte per quel dente cariato, una scaccolata, lo smalto sempre a posto, la maldicenza uno schizzo qua e là perché poi è così bello spettegolare un poco poco, fa chic e non è peccato.
Io odio te che odi Iodio perché per te bisogna sempre parlare d’amore, bisogna sempre comunque far nascere il sole, perché per te è necessario far credere di fare del bene e alle feste è sempre bene donare le rose. Io odio te che odi Iodio perché l’odio è un sentimento umano e duraturo e perché io odio quando sono esasperata e non mi sento, per questo, esagerata. Io odio te che odi Iodio perché dell’odio è sempre scomodo parlare, perché non capisci che provo tutti i sentimenti, oltre all’amare e al tollerare, quando mi portano ad odiare. Io odio te che odi Iodio perché pensi che bisogna sempre farsi accettare, e bisogna sempre scrivere d’amore, ma è davvero necessario mentire ogni volta al nostro cuore? Non sarebbe meglio liberarsi e confessare? (cit.)
Io odio te che odi Iodio perché sei uno dei nuovi mostri e a te è dedicato il mio Iodio, che tu mal sopporti, non digerisci, disprezzi come il peto che ogni tanto ti scappa. Io odio te che odi Iodio perché Iodio è l’unica medicina che io possa somministrarti. Ecco perché ho pensato di curarti con metodo. Non una dose massiccia, a pioggia, ma una siringa ogni settimana. Una dose mirata: ti sottraggo il mio Iodio, in modo che tu non possa farne più a meno. Basta regalare perle ai porci: questo Iodio dovrà bastarti per sette giorni. Aspetta martedì prossimo per leggerne un altro. Ora abbassa i pantaloni, su, che ti faccio l’iniezione.

Ps grazie ai Bluvertigo, per aver prodotto una meraviglia di canzone così. E grazie a Ics, che mi ha fatta innamorare del mood tanto da farne una rubrica:http://www.youtube.com/watch?v=9le1dRDw5m0

Ps a tutti quelli che amano Iodio perché lo considerano una pasticca balsamica, anzi, quasi un mucolitico, vanno i miei saluti e i ringraziamenti.
Questa è la pillola. Osservatela e soppesatela con cura, prima di ingerirla. Poi prendetela e godetene tutti. Amen.

(da http://www.parallelo41.net)

Iodio. Pioggia sporca

Io odio la pioggia perché è un intoppo, un intralcio, un accidente messo lì a guastarti la giornata. Io odio la pioggia perché ti costringe a uscire con l’ombrello e questo vuol dire limitarti l’uso delle mani. Io odio la pioggia perché odio l’ombrello, che è lugubre e uggioso anche quando lo vestono colorato e con i pupazzetti. È fastidioso, irritante, ingombrante, vecchio, maligno e bavoso perché non ti molla mai, l’ombrello, vuole stare in mezzo, azzeccato azzeccato a te e tu non sai dove metterlo. Oddio, lo sapresti ma dicono che non è quello il suo utilizzo. Io odio la pioggia perché l’ombrello ti impedisce di vedere il cielo e non sta bene, no. Io odio la pioggia perché se alla pioggia si unisce il vento non c’è ombrello che tenga, soprattutto al Centro Direzionale, che è il cimitero degli ombrelli.
Io odio la pioggia perché, guarda un po’, piove sempre all’entrata e all’uscita da scuola e se hai più di un figlio è come l’Apocalisse.
Io odio la  pioggia perché ti bagna i vestiti, i capelli, a volte persino le ossa e se non sei fortunata abbastanza da poterti cambiare ti costringe a restare con i vestiti appiccicati addosso e il senso di umidità nei capelli tutta la giornata.
Io odio la pioggia perché è sporca, viscida, ruvida, cattiva. Io odio la pioggia perché sei costretta a pulirti i piedi prima di entrare in casa e se esci fuori al balcone devi ripulirteli quando entri, perché le scarpe che inzaccherano il pavimento sono un’istigazione al suicidio se sono le tue e all’omicidio se sono di qualcun altro.
Io odio la pioggia perché rallenta, ostacola, nuoce. Io odio la pioggia perché è triste, e perché quando ero piccola mia nonna diceva che era il pianto dei nostri morti in cielo e il cielo non dovrebbe mai piangere, per me.
Io odio la pioggia perché rende tutto grigio, annienta i colori. Io odio la pioggia perché non possiedo un impermeabile. Io odio la pioggia perché rende la strada scivolosa e mettici le buche, le macchine in divieto di sosta, il telefono che squilla, lo zainetto dei bambini, il risveglio pessimo, e gli appuntamenti, e rischi di romperti l’osso del collo e nemmeno sai perché.
Io odio la pioggia perché adesso ho freddo. Io odio la pioggia perché ti costringe a centellinare mutande, calzini, magliette e pantaloni, perché se non puoi stendere i panni non puoi neanche asciugarli e allora lavi solo in caso di necessità.
Io odio la pioggia perché qui al Sud non diventa mai neve. Io odio la pioggia perché d’inverno, quando piove, fa caldo e allora, al peso della pioggia, devi aggiungere quello del sudore.
Io odio la pioggia perché odio quella sensazione alla caviglia, l’umidiccio che sale e che ti lega, ti avvince, ti rende i movimenti più lenti, come in una moviola. Io odio la pioggia perché assomiglia alle persone false, a quelli che ti vogliono prendere per i fondelli e ti lisciano la scapola.
Io odio la pioggia perché cade lenta e rende tutto impossibile. In ogni città. Ma a Napoli la pioggia diventa pure cattiva perché penetra nelle buche, negli asfalti sconnessi, nelle fenditure millenarie e si allea per renderla invivibile. Ma io odio pure i napoletani, sotto la pioggia, perché siccome la schifiamo tutti, la pioggia, diamo il peggio di noi, diventiamo più irritabili, egoisti, maligni, feroci agli incroci.
Io odio la pioggia perché è talmente falsa da giocare con i bambini, da mostrarsi allegra e scherzosa tanto da spingerli a sguazzare infilando i piedini nelle sue trappole bagnate. Perché la pioggia inganna.
Io odio la pioggia perché quando poi scende torrentizia di mattina presto si accompagna sempre a bollette da pagare, a scadenze da assolvere, a impegni da mantenere quel giorno, proprio quello, in quel momento. Come se pioggia e burocrazia fossero unite da un patto segreto per avvelenarti la giornata. E non è un caso che le scartoffie quando si bagnano si spugnano e diventano fracide e mollicce. Come la burocrazia.

(da http://www.parallelo41.net)

Iodio. Facebook, lo senti questo Yeah?

Io odio un certo modo di usare Facebook.  Odio quelli che quelli che se muore il portinaio con cui hanno condiviso un’esistenza se ne fregano, anche se magari non riceveranno posta a casa per una settimana. Ma se muore un personaggio famoso giù a piangere come fosse uno di famiglia. Cazzo: della Melato avete visto solo “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto” però adesso è vostra sorella? Non sarà certo un social network a farci diventare tutti fratelli davanti all’ultimo respiro. Quando muoio io, sappiatelo: non vi conosco.
Io odio quelli che usano i messaggi come chat. Cioè, se ho la chat sempre chiusa ci sarà un motivo, no? Tipo che non ho tempo per parlare. O non mi va. E allora perché mi scrivi solo “ciao”? L’altro giorno a uno gli ho detto: “scusa, ma sto lavorando, se hai bisogno di dirmi qualcosa scrivimi, che dopo leggo e ti rispondo” e quello ha detto “va bene, sei carina”, salvo poi tornare la sera e ripetere “Ci sei? Ciao”. E allora dillo, che ti saluto io: ciao. Per sempre, però.
Io odio quelli che non ti conoscono, non ti hanno neanche tra gli amici e però ti scrivono annunciandoti che cercano persone con cui fare amicizia e che se sei interessata puoi chiedergliela tu. Esci, vai a rubare, tocca le femmine, Robertì. Vai fuori da qui.
Io odio quelli che non ti hanno mai parlato e all’improvviso ti scrivono. E ti scrivono roba da fucilazione armata. Tipo la settimana scorsa mi ha scritto uno dicendo che ho la faccia da principessa Sioux quando fa la danza della guerra sulla pancia del guerriero. Bello mio, ti devi far ricoverare se mi vedi come una principessa Sioux. Facciamo che ti infilzo con una freccia, ti blocco, e poi te ne vai a fangùl.
Io odio quelli che poiché scrivi di calcio pensano che la tua vita ruota attorno al Napoli. Tipo se scrivi che la giornata è brutta e capita che il Napoli il giorno prima ha perso, pensano che sei triste per la sconfitta. Ma magari hai solo mal di testa e del Napoli che ha perso te ne sbatti. Eh.
Io odio quelli che non conosci, ti chiedono l’amicizia e poi non ti scrivono nulla. Mai. Ma proprio mai.
Io odio quelli che hai tra gli amici da anni, non ti hanno mai scritto niente e tu pensi che Fb non lo usano, poi li incontri per strada e scopri che sanno anche quante volte hai fatto pipì. Stai dietro alla finestra, eh!?
Io odio quelli che usano Facebook come un orinatoio pubblico. Arrivano, si calano i pantaloni, scoreggiano, fanno pipì e magari pure cacca, poi si alzano le braghe, si appuntano la cintura e se ne vanno. E intanto hanno vomitato insulti come se fossero nel gabinetto di casa.
Io odio quelli dal link facile. Quelli che mettono frasi tipo: “non sei tu che sei fatta male, sono gli altri che non ti capiscono”. Oppure: “le avversità della vita mi hanno ferito, ma non riusciranno a fare di me un’altra persona”. Sono frasi orribili, pugni allo stomaco a duemila anni di filosofia e a mille di psicanalisi. Sono sputazzate in faccia alla libertà di pensiero perché non è libertà esaltarsi su Fb con le proprie auto convinzioni come se ti stessi masturbando in pubblica piazza. Ma perché devo vederti mentre ti consoli con il tuo pisello? Devo sapere che sei forte e che non temi le avversità? Ma vai a lavorare, piuttosto. Ora, subito. E prendi gli schiaffi. Che ti fa bene.
Io odio quelli che mettono angeli, candele, cuoricini, babbi Natale a Natale e ovetti di Pasqua a Pasqua, e le pecorelle, e fiori, tanti fiori, e note musicali sul pentagramma, e una quantità infinita di animali che dovrebbero ispirare dolcezza e tenerezza. Orsetti di peluche, cani di terracotta, gattini soffici e vellutati, criceti dall’occhio furbo e languido. Ma perché devo vedermi passare davanti tutta questa finta dolcezza in filigrana, questa musica celestiale che per le mie orecchie è un incubo, queste smancerie della domenica appaltate come inno a un “volemose bene” globale? Non sono globale e non “volemose bene”. Né ora né mai.
Io odio quelli che la rivoluzione la fanno dietro a un pc. Quelli che si indignano, che fanno le battaglie e però, poi, non sono mai stati a una manifestazione. Che la loro indignazione si ferma, al massimo, a firmare una petizione. Sempre che non siano troppo pigri da aprire il link che ce li rimanda. Ma che se chiedi loro di venire a far numero in piazza ti rispondono che la casa, i bambini, il cane da portare a fare pipì. Muori, va’.
Io odio quelli di Instangram. Che si fanno le foto con i colori belli e le cornicette. Il primo piano con i fiori accanto. Poi vai a vedere le foto normali e sono dei mostri. Non vivete su Fb, belli miei, che si fa quando vi incontreranno dal vivo? Eh?
Io odio quelli che ti iscrivono ai gruppi a tua insaputa. E allora succede che ti svegli una mattina e scopri di essere iscritta a “Polizia vuol dire democrazia” o a “La Tatangelo ha acquistato punti con le tette finte” o a improbabili gruppi che fanno capo a improbabili movimenti politici da delirio di onnipotenza. Ma andate a cagare, prima, e a lavorare poi! E, soprattutto, quando volete aggiungere qualcuno a qualche gruppo non aggiungete me!
Io odio quelli che su Fb mettono foto orribili di bimbi o cani maltrattati e chiedono a tutti la “cortesia” di cliccare il “like” o di pubblicare foto/messaggio sul proprio profilo per un’ora per sensibilizzare l’opinione pubblica e salvare l’infanzia. Ma chi salvi, tu? Ma che minchiata è?
Io odio quelli dei siti che ti piazzano là una foto e scrivono: “Scommettiamo che questa foto raggiunge i 100mila like in cinque minuti?” e quasi senti lo Yeah di sottofondo. Ecco: sparati, sui coglioni. Oh Yeah.

(da http://www.parallelo41.net)

Iodio. Occhio, meduse. Avete aiutato Silvio

Io odio quelli che ieri hanno aspettato Berlusconi a Servizio Pubblico con la bava alla bocca. Li odio perché sono loro i vecchi, Berlusconi è giovanissimo. Li odio perché aspettare un nemico con la bava alla bocca è sempre il primo passo verso una sconfitta: storica, epocale, scema, perché incruenta, come quella di ieri. E ieri non ha perso Berlusconi.
Io odio quelli che ieri hanno iniziato nelle prime ore del mattino ad annunciare che non avrebbero visto La7: su Facebook, Twitter, poco ci mancava che facessero anche i segnali di fumo o gli striscioni per strada. Salvo poi restare come delle meduse ammosciate incollati alla tv. Io odio quelli che ieri sera, durante Servizio Pubblico, non hanno smesso un attimo di digitare sul computer le parole di Berlusconi. Ora, due sono le cose: o pensi che sei l’unico al mondo che possiede un televisore, o stai così male e accusi talmente il colpo da non poter fare a meno di far finta che è lui che sta sbagliando. Ah, per inciso: vi ho letti stamattina. Ieri, finché il sonno mi ha dato tregua, sono stata incollata alla tv. Affascinata.
Io odio quelli che ancora stanno ad accusare Berlusconi di tutti i mali dell’Italia. Dimenticando che i veri mali, quelli che scontiamo, li ha creati la sinistra (da cui storicamente provengo, prima che pensiate sia di destra).
Io odio quelli che ieri hanno aspettato Berlusconi con la bava alla bocca perché li ritengo incapaci di cogliere il guizzo, la genialità, la superbia di un uomo che ha creato la televisione in Italia, ha governato il Paese per praticamente quarant’anni (tra quelli passati dietro le quinte e quelli allo scoperto), e che ridicolizza in due ore di trasmissione Santoro, Travaglio, la Costamagna e la Innocenzi. Così, con uno scoccare delle dita, un lievissimo battito di ciglia. Per di più, sorridendo sotto al lifting.
Io odio quelli che ieri hanno aspettato Berlusconi con la bava alla bocca perché avrebbero voluto godersi il suo abbandono dello studio e invece si sono trovati di fronte a un fazzoletto che puliva la sedia di Travaglio, che Berlusconi non considera più un nemico, e che per questo ha sconfitto. Si sono trovati di fronte a Santoro che difendeva la possibilità della diffamazione da parte dei giornalisti, che non è il tipo di giornalismo che dovremmo desiderare, nessuno. Si sono trovati di fronte a un genio della comunicazione, assoluto, uno che la mastica, la comunicazione, poi la ingoia, ci si pulisce gli interstizi tra i denti come col filo interdentale e, sorridendo, la risputa fuori infiocchettata e pronta ad essere riutilizzata, a seconda dei tempi.
Io odio quelli che ieri hanno aspettato Berlusconi con la bava alla bocca perché sono quelli la cui unica speranza è forse Bersani, che subito dopo è andato a Porta a Porta. Cioè, lo stesso giorno in cui Berlusconi dopo anni e anni torna da Santoro tu, dopo pochi minuti, vai da Vespa? Sei un pazzo. Fuori.
Io odio quelli che ieri sera hanno aspettato Berlusconi con la bava alla bocca perché sono vecchi, tremendamente vecchi. Simili a quegli uomini che si ritrovano sulla poltrona di un cinema a luci rosse a dilettarsi da soli perché non possono aspirare a meglio di fuori. Li odio perché sono convinti di averlo messo all’angolo, di averlo stanato con quella storiella della Deutsche Bank, dove Berlusconi fa il Silvan della politica e il giochino delle tre carte come a piazza Garibaldi. Ma gli hanno fatto un favore. Il Caimano, il loro grande porco, è ancora più vivo e vegeto, più fresco, più convincente che mai. Ha vinto lui, perché loro sono faziosi, inutili, tristi e livorosi. Più lo odiano e quello più guadagna consensi.
Io odio quelli che ieri sera hanno aspettato Berlusconi da Santoro con la bava alla bocca perché la bava alla bocca fa male alla salute: fa venire il reflusso, blocca la digestione, favorisce la colite e l’aria nella pancia, cambia il colorito della pelle, aumenta il rischio delle rughe, spezza le unghie e abbassa la libido. Ma conviene davvero avere sempre quell’aria da ragazzotti di sinistra che ne sanno più di Silvio e che continuano a prendere botte da lui come i pupazzetti al luna park?
33,6% di spettatori. 8 milioni e 600mila persone davanti alla tv. Berlusconi ha già vinto. Tutto il resto è muffa.

Iodio. E’ solo puzza. E Pupo è basso

Io odio le donne svenevoli. Quelle che svengono, sì, ma non quelle che si sentono male, le donne senza forze, quelle da romanzo d’appendice, un po’ pallide, carezzevoli e tanto fragili solo all’apparenza. No, io odio le donne che al primo incontro la danno, e poi svengono.
Io odio le donne che si innamorano perdutamente. Quelle che, beatamente, pensano che stavolta è fatta, stavolta è l’uomo della mia vita, che non può andare male, no, non stavolta, che stavolta è lui, lo sento, ha addosso l’odore dell’uomo giusto. Ma quello che senti non è odore, è puzza. Di cacca.
Io odio le donne che pensano “stavolta no, non può andare male, no”. Stavolta sarà un disastro, sorella mia, te lo dico io. Perché quest’amore che strappa le radici, che ti prende nel vento, che ti fa scuoiare e arricciare i capelli, che semina bufera nella tua vita, ci ha fatto pure le palle, eh!
Ma perché, una sana relazione, magari condita con del buon sesso fatto bene e che dia gioia, no? Una buona relazione, da costruire, una di quelle che nasce in sordina, per affinità e distanza, che sembra niente e poi si trasforma in viaggio assieme, ti fa così schifo? Una relazione che comprenda sane risate, un bel libro letto insieme e che non sia cosi fragorosa e scolpita nel marmo come l’arrivo dei cosacchi a San Pietro, no? Una cosa più terra terra, insomma, eppure altissima, una di quelle che non abbiamo letto nei libri, che non hai sognato la sera a letto stando bocconi e guardando la luna e pensando che la luna parlasse solo a te? E cresci, bella mia, che la passione sfuma: è l’amore che resta.
Io odio quelle donne del “io me lo merito, stavolta lo sento, è lui”. Cazzo c’hai di più importante tu, che dovresti meritarti che arriva l’uomo della tua vita, il grande amore a cavallo? Cavalcando per praterie e decapitando tutte le donne migliori di te che incontra lungo il cammino?
Io odio le donne che svengono per un bacio, per il primo che ci sa fare un minimo, in più nel panorama generale, che deprime. Le lascerei senza uomini, queste donne, per molto tempo, come il prigioniero a pane e acqua. Fai digiuno, poi dopo ne parliamo.
Io odio le donne che svengono perché sanno di malattia. Perché vanno curate, va smontato loro in testa il fumetto del principe azzurro perché l’amore bello, migliore, assoluto, fresco e croccante è adesso, come afferrare al volo l’impermeabile e poi tenerlo sotto al braccio. Perché c’eravamo sbagliati, non grandina, ma fa tanto piacere sapere che, se fa freddo, l’impermeabile c’è.
Io odio le donne che svengono, che dopo anni passati da single si fanno finalmente una sana copulata e appena tornano a casa cambiano il profilo Facebook per comunicare al mondo che hanno una relazione stabile. Illuse. Io odio le donne che postano frasi e canzoni d’amore e lanciano anatemi arzigogolati a fantomatici invidiosi. Come se ce l’avessero solo oro il friccicorio.
Io odio le donne che si innamorino di chiunque offra loro un caffè e, tazzina in mano, già si vedono all’altare in abito bianco. Io odio le donne che si vestono la mattina come se il primo maschio con l’ormone impazzito possa mettere loro una mano sotto la gonna. E non datevi via così, compagne, non svendetevi come a un mercato delle pulci.
Io odio le donne che quando trovano un maschio appena appena un po’ furbo, che le guarda negli occhi e pronuncia il loro nome, via a squagliarsi come un gelato al cioccolato dolce e un po’ salato. Senza considerare che l’altezza di quell’uomo, non a livello di centimetri, ma di profondità, sarà pari a quella registrata sulla carta d’identità di Pupo.
Io odio le donne che raccontano con aria sognante e maliziosa alle altre donne le loro avventure da separate. Perché consegnano al mondo un’idea delle separate che non mi piace. E che è: una si separa e deve subito trovarsi un rimpiazzo? Non si può avere una vita sana anche da sole?

Io odio quelle donne che senza un uomo si sentono finite. Quelle aggressive, in abiti sempre succinti, che mettono il seno davanti a tutto. Poi non lamentatevi se gli uomini vi guardano solo quello. Non chiedete loro di guardarvi il cervello.

Iodio. Parrucchieri? Non sono una mucca

Io odio i parrucchieri, anche quelli che quando hanno finito ti fanno sentire una nuvola.
Io odio i parrucchieri perché sono dei gran professionisti ma anche dei gran rompiballe, con rispetto parlando. Perché per andare dal parrucchiere devo quasi sempre prendermi mezza giornata di festa al lavoro e io non posso permettermi di saltare il lavoro perché salto soldi, anzi, li pago ai parrucchieri quei soldi che non guadagno perché salto il lavoro.
Io odio i parrucchieri perché pochissimi – ma quei pochissimi sono così pochi da essere fagocitati nel nessuno – si preoccupano o condividono il pensiero che dietro e dentro quella testa da cotonare, lavare, asciugare, strizzare e rendere vaporosa c’è una mamma, una donna, una persona con i suoi ritmi, i suoi orari, i suoi sogni, le sue angosce, le sue preoccupazioni, le sue fisime e le sue giornate da organizzare.
Io odio i parrucchieri perché pensano che noi donne siamo tutte uguali, tutte che vanno dal parrucchiere una volta a settimana, tutte civettuole da bigodinare, che aspettano lì, pasciute e beate e magari anche un po’ tonte per ore e ore.
Io odio i parrucchieri perché non si rendono conto che quelle lunghe attese cui ci costringono, ci riportano ad altre attese, e cioè che la casa, i compiti dei figli, la cucina, il proprio lavoro, i propri desideri vadano in decomposizione come il latte avariato.
Io odio i parrucchieri perché nella maggior parte di loro non c’è un briciolo di coscienza o di preoccupazione. Perché imbarcano liste di clienti come se il loro negozio fosse l’arca di Noè prima del diluvio universale, perché non dicono no a nessuno e se ne fregano delle tabelle di marcia. Io odio i parrucchieri perché aprono quando gli altri chiedono già un panino per ammortizzare i primi morsi della fame. Io sono sveglia già da tre ore quando aprono i parrucchieri.
Io odio i parrucchieri perché ogni volta, giuro, mi metto in posizione di ascolto, cioè piena di buona volontà, come gli operatori del centro contro l’alcolismo o la depressione. Mi faccio in quattro per essere tollerante e ben disposta, persino tranquillizzante, ma ogni volta l’illusione si spezza. Entro, chiedo conto dei tempi di attesa ed ecco la solita frase “stia tranquilla, si rilassi, faremo prestissimo”. Ma si rilassi a chi che sono le 9 del mattino e già sto tutta esaurita? Eh? E ogni volta due, tre, quattro ore (quello delle quattro ore, però, l’ho mandato a quel paese) sulla poltrona del coiffeur nonostante il cellulare urli, il pc si riempia di mail e a casa comincino le ricerche di me stessa con il coinvolgimento della protezione civile e dei cani antivalanga.
Io odio i parrucchieri perché vado lì per chiedere sempre lo stesso taglio sbarazzino che non richiede la piega per asciugarlo e quelli usano sempre la spazzola. Li odio perché glie la farei ingoiare la spazzola. Perché tra casa, lavoro, figli e vita non ho il tempo per usare la spazzola e allora che me lo fai a fare un taglio che necessita di spazzola se ti dico che i capelli me li asciugo scombinandomeli con le dita sotto l’aria calda del phon?
Io odio i parrucchieri perché “sì, certo, ho capito assolutamente cosa vuoi, una spuntatina e basta” e poi fanno assolutamente come gli pare tagliandoti tutto.
Io odio i parrucchieri perché mi parlano. Ma se io ho aperto davanti un giornale, o un libro, vuoi dire che non voglio parlare. Che non me ne frega niente se Kate è incinta o se la Fico è una stronza, che penso solo alle cose che devo sapere per vivere, perché tempo, a parte la sopravvivenza, non me ne resta, e quello che m resta certo non lo passo dal parrucchiere.
Io odio i parrucchieri perché le mani e i piedi me li rovinano sempre. Mi fanno incarnire le pellicine negli angoli delle unghie e mi fanno sempre uscire il sangue.
Io odio i parrucchieri perché in fondo li amo. Perché farmi il colore una volta al mese mi impedisce di vedermi brutta. Perché cambiare taglio di capelli è il primo passo quando vuoi rivoluzionare la tua esistenza.
Io odio i parrucchieri perché li amo e perché in fondo, nel mio odio, sono felicemente contraccambiata. Ma io posso odiarli, a loro. Loro, a me, no.

(da http://www.parallelo41.net)

Iodio. Il momento giusto? Sì, di levarti dai coglioni.

Io odio quelli che non rispondono, alle telefonate, alle mail, alle sollecitazioni in genere. Quelli che ti fanno aspettare, che si lasciano scorrere addosso le parole e intanto ci perdono anche tanta vita.
Io odio quelli che ti dicono “ci devo pensare un attimo, poi ti faccio sapere” e però poi non ti dicono più se ci hanno pensato oppure no. E fanno la figura dei superficiali, degli arronzoni, dei distratti, dei faciloni, degli sciatti.
Io odio quelli che “non ho tempo, davvero, non riesco neppure a guardarmi allo specchio”. Cazzone, invece di mettere in fila queste undici parole e due virgole, potevi darmi una risposta di senso compiuto, no?
Io odio quelli che non rispondono perché in fondo non sanno che dirti. Perché mi dà un senso di depressione e fallimento. Per loro, chiaramente, mica per me.
Io odio quelli che non rispondono. E mi indispongono a tal punto che poi la mia missione diventa stanarli. Cioè, tu non mi rispondi? E io vengo a citofonarti, così mi devi rispondere per forza. Ti telefono ottantasette volte di seguito, a costo di farmi bloccare il dito sulla tastiera, ti mando duecento e passa mail, finché non mi dici quello che ti passa per la testa. Perché è assurdo che un qualsiasi idiota si permetta di non rispondere. A quanto lo vendi? Eh? Cammina, va’.
Io odio quelli che non rispondono perché, dicono, “devo trovare il momento giusto per farlo”. Li odio perché non esiste il momento giusto. Il momento giusto è quasi sempre un fallimento, una lacrima che rovina il trucco, la pioggia che sporca la macchina che hai appena lavato, la sciocchezza universale della necessità di incanalare desideri, passioni, obiettivi e idee. E coglilo un momento sbagliato, santiddio, che stravolgere un secondo della tua giornata non può farti che bene!
Io odio quelli del “chiamami alle 14, è quello il momento giusto”. Ma io voglio parlarti ora, cazzo, ora, non alle 14! Alle quattordici ti non mi serve più la tua risposta, perché avrò altre mille domande e allora ci rincorreremo all’infinito. E il tuo momento giusto sarà quello più sbagliato.
Io odio quelli del “momento giusto” perché i momenti giusti non arrivano dal cielo, vanno fabbricati, costruiti, non rimandati e messi in freezer come fossero bastoncini di pesce. Il momento giusto è ora: per amarmi, ferirmi, farmi riflettere, aiutarmi, svegliarmi, litigare, capirmi, indovinare, interpretare, desiderare. Trovalo il momento giusto. Sennò lo trovo io. E te ne vai a quel paese. Per quello, è adesso il momento giusto.

(da http://www.parallelo41.net)

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