Iodio. Il caleidoscopio della commessa
Io odio quelle commesse. Quelle con l’aria da santarellina, la frangetta alla Catherine Spaak, la gomma da masticare in bocca tipo traino per roulotte, le unghie curate e il cervello sfatto. Tanto sfatto che quando chiedi “voglio un maglione rosso”, ti rispondono, annoiate e stanche, “rosso non c’è, lo vuole blu?”. Ma ti pare che se io lo volevo blu non te lo indicavo nel novero delle possibilità? Aspettavo te e la tua aria da esistenzialista perduta in un film francese in bianco e nero?
Io odio quelle commesse. Perché, lo so, fanno un mestiere complicato, o meglio, fanno un mestiere che deve piacere e molte sono costrette a farlo. Ma non per questo se la devono poi prendere con me e con quelle che, come me, entrano solo per comprare e non per vedere mille cose come galline in cerca di becchime.
Io odio quelle commesse. Perché vedono il cliente come la cartella di Equitalia e si spingono oltre la noia esistenzialista e ti pongono domande che manco Jean Paul Sartre al suo acme. Un giorno entro e chiedo un paio di stivali, uguali a quelli in vetrina. Numero 40. La Catherine Spaak di Chiaia mi risponde: “il 40 non c’è ma abbiamo il 38, calza largo”. Ora, io posso capire che tra il rosso e il blu tu mi prenda per cretina e dici “a questa le posso rifilare l’intero caleidoscopio”, tu ci provi cara mia e io lo apprezzo pure, ma sul 40 e 38 che ci provi? Mi taglio il tallone davanti a te per farti contenta e vederti meno annoiata e più presente?
Io odio quelle commesse che trovano un alleato stupido e da Grillo Parlante, un alleato insospettabile: mio/vostro/nostro/loro marito. Tu già te lo porti appresso come una gomena che non sai dove sistemare perché viene e si rompe e già dice “ma un solo negozio non basta?”, come se ti avesse conosciuta ieri, come non sapesse che tu massimo due ne visiti, poi ti viene il mal di testa come il giorno dell’esame di maturità. Insomma: quando pure hai passato la prima prova con la commessa di turno, quando pure hai infilato quel vestitino avion che ti piaceva tanto, ebbene quando vedi che addosso a te quel vestitino cola come un cielo pieno di smog in un mattino milanese, tuo marito-gomena guarda la commessa, la commessa guarda tuo marito-gomena e insieme esclamano: “Però male non ti sta, affatto, poi tu sei magra, qualsiasi cosa che metti ti sta bene, giusto un po’ qui dietro le spalle si deve forse stringere”. Forse insieme a quella stretta dovrei anche asportarmi senza anestesia una scapola, decisamente di troppo perché, a scapito di come calza il vestito, con quella scapola potrei gonfiare come una zampogna il marito-gomena e la commessa-Jean Paul Sartre?
Io odio quelle commesse. Quelle che tu scegli il pantalone che ti piace e prima ancora di chiedere la taglia giusta loro ti guardano come a pesarti un tanto al chilo sulla bilancia del mercato e poi se ne escono: “sei una 44, vero?”. No, tesoro, sono una 42. Mo tira ad indovinare quanti pensieri ti dedicherò stasera, va’.
Io odio quelle commesse. Quelle che ti assalgono appena metti piede in un negozio. Quelle che tu entri timida timida e con le cuffie nelle orecchie, come se il fatto non fosse tuo, per non dare nell’occhio, perché cerchi solo il capo giusto per te che ti chiami dalla stampella o dallo scaffale e quelle ti rovinano la poesia piombandoti addosso come falchi che litigano per una carcassa abbandonata. Scappo sempre, a quel punto, da quelle commesse, di filato.
Io odio quelle commesse. Quelle che tu entri, vai allo scaffale o alla stampella ed è chiaro che hai scelto quell’abitino grigio scuro di lana semplice semplice, con quel fiore fucsia sulla spalla un po’ scesa, dal taglio particolare perfetto per una serata di primo novembre da passare all’aperto. E allora lo stacchi dalla stampella o lo tiri giù dallo scaffale e te lo sistemi sul braccio per portarlo in camerino e farlo assaggiare al tuo corpo. E vai da quelle commesse sorridendo, ma loro sono riunite in un gruppetto a vociare, si guardano le unghie e parlano sguaiate, si raccontano avventure sconce e litigate con i fidanzati e nessuna, nessuna pensa che forse tu sei lì per comprare un capo. È a quel punto che, se il vestitino ti piace proprio assai, dici solo: “lo prendo”. Senza provarlo. Poi al massimo lo conserverai nell’armadio e lo maledirai ogni volta al solo pensiero di quelle commesse. Se invece non ti piace quanto occorre per sorvolare su quelle commesse, glie lo rimetti a posto mentre ti pregano di restare. E te ne vai a mani vuote, pure se dopo ti viene il rimorso.