ilariapuglia

mai più dietro un pilastro

Archivi per il mese di “febbraio, 2012”

Domandare è facile. La gente non vede l’ora di rispondere.

Ci siamo mosse alle 9 nel freddo vomerese. Non mi sono tolta il cappello neppure per un secondo, neanche in macchina. Al di là dei risultati, riportati altrove, è stato divertente. Mi sono sentita come una vecchia cronista d’assalto, una che ha una voglia matta di cronaca e deve conquistare il direttore del giornale per avere spazio su un giornale. Con il vantaggio, però, che il direttore è d’accordo a che tu faccia tutto questo lavoro e che perciò puoi farlo in serenità, con la sola curiosità di riportare ciò che vedi, senza far parlare dati che ancora non hai. Un caffè consumato al volo nel bar di un amico, quattro chiacchiere e ci siamo messe in marcia. Abbiamo battuto tutto il Vomero e Fuorigrotta passando per Mergellina e Santa Lucia. I momenti più divertenti sono stati il passaggio ai varchi del San Paolo, dove gli steward evidentemente si sentivano talmente soli che hanno cercato in tutti i modi di darci a parlare indicandoci i botteghini e quasi dettagliandoci a memoria la storia dello stadio, e l’incontro con Stefano Marano, il rivenditore di Via Leopardi con il quale ci siamo trattenute a parlare più che con gli altri. Un mammasantissima. Uno rispettato da tutta la gente del  quartiere: tutti quelli che passavano gli porgevano i loro ossequi, gli stringevano la mano, lo salutavano quasi inchinandosi. Quando ci ha detto “andiamo a prenderci un caffè” ho capito che avevamo fatto breccia e che ci avrebbe parlato per ore. E infatti ci ha interrotti la neve. Che poi neppure è esatto, perché, pure sotto la neve leggera e dura che ha iniziato a scenderci addosso, non ha smesso di raccontarci e di ipotizzare. Siamo state noi a dirgli che dovevamo proseguire. La cosa che mi ha sorpresa di più, stamattina, è che non mi aspettavo che i gestori delle rivendite rispondessero alle nostre domande. E invece erano tutti lì che non aspettavano altro. Perché la verità è che la gente muore dalla voglia di rispondere alle domande. Ma che nessuno domanda più. Forse è per questo che sui giornali non si leggono più quei bei pezzi di una volta nati da domande a cui si cercava di dare delle risposte. I giornalisti pensano che la gente non abbia voglia di rispondere. Invece desiderano solo che tu vada là, poggi i gomiti sul bancone e ti fermi un attimo a chiedere. Scopri un sacco di cose se fai così: si aprono, sarebbero capaci di raccontarti tutta quanta la loro vita. Come quando si va in analisi. Provateci. È facile. E pure assai divertente.

Care coppe, restituitemi il mio Napoli

Una domenica bellissima. Un pranzo da amici con tutta la famiglia, bambini compresi, cosa volere di più? Sì, lo so, i tre punti, direte voi. Ma a volte ci sono cose più importanti. Lo studio antropologico, per esempio. Lo studio di una strana specie di tifoso, il Gallo. A pranzo con Massimiliano, Francesca e sua figlia Giulia, il Martire ed i miei bambini che, impossibile pure ad immaginarlo, alla vigilia, sono stati due angeli per quasi tutto il giorno. Sorvolo sulle leccornie che ci ha preparato Francesca, dirò solo che si trattava di pranzo a base di pesce, che ho aiutato in cucina come se fossi a casa mia, anzi di più, e che il tutto è stato innaffiato da un ottimo vino rosso, con la sorpresa che anche i miei commensali amici preferiscono la tinta forte pure se si tratta di abitanti del mare serviti nel piatto. Alle quindici finiamo di pranzare e prendiamo posizione davanti alla tv, che, data la neonata casa di Francesca, si trova posizionata a terra. Il Martire sul divano, noi tutti con il sedere al freddo. Arriva Ciro, un amico di Giulia. Si toglie il cappello e lo getta sul divano, scoprendo una cresta alla Hamsik che già me lo rende simpatico senza che lo abbia ancora sentito parlare. Nessuno mantiene la posizione invariata per tutti i novanta minuti. Chi si muove di meno, però, è Gallo. Tutto il primo tempo lo passa in piedi. Al fischio di inizio inforca gli occhiali e si poggia dritto impalato dietro di noi. Posizione fissa e concentrata. Zitto come il San Paolo vuoto mentre si gioca a Milano. Non un fiato e non una parola. Nell’intervallo gli faccio: “Però! Teniamo!”. Lui neanche risponde. Fa cenno di sì con la testa. È soddisfatto. Non lo dice, ma legge anche lui, come me, un miglioramento rispetto alle ultime prestazioni dei nostri. Il gioco riprende, il Martire si mette la copertina di pile sulle gambe, noi cambiamo ancora una volta posizione, il Gallo si siede sul divano. Incredibile: si è mosso. Gioco fermo, Nocerino va verso Aronica, Aronica lo blocca con il gomito, Nocerino gli si avvicina minaccioso, arriva Ibra e lo schiaffeggia facendosi scudo con Nocerino. Nocerino le prende da Ibra, poi le prende da Aronica. Intanto le prende pure De Sanctis, per il contraccolpo. Noi restiamo immobili. Io urlo: “oh!”. De Sanctis si infuria. Si inginocchia mentre Rizzoli gli consegna il cartellino giallo. Rabbrividisco di fronte all’ingiustizia. Poi l’arbitro si avvicina al mucchio sventolando il rosso e Ibra, a capo chino, esce dal campo. Il salotto diventa un tripudio di “Sì! Sì! Dai! Forza! Fuori! Vigliacco che non sei altro!” ed altri improperi tutti però pronunciabili e poco offensivi – non come quelle scempiaggini che ho letto oggi su Facebook e che sono pari a “napoletani colerosi”, no, niente del genere – tutti urliamo ed esultiamo e ci carichiamo perché adesso si può e si deve fare. Tutti tranne Gallo. Nemmeno un battito di ciglia. Immobile e concentrato come se stesse guardando la Corazzata Potemkin. Surgelato, anche se il freddo lo abbiamo lasciato fuori e il salotto è caldo di tifo buono. I nostri mollano. Si vede la paura, si sente nell’aria. Sono andati lì per pareggiarla. Entra Inler e il Gallo parla. Conveniamo che far entrare un diesel a trenta minuti dalla fine è una follia perché si scalderà al 90°, quando sarà troppo tardi. In fondo sappiamo già come andrà a finire, ma io non mollo un attimo la speranza di essere smentita. Finisce la partita e Gallo si alza: “Adesso lo so – dice -, tutti diranno che ci è andata bene, che è un punto guadagnato perché abbiamo giocato contro il Milan, ma secondo me abbiamo perso due punti”. Eccolo, il Gallo. È capace di stare zitto per novanta minuti e poi dire esattamente quello che pensi tu: un’occasione mancata. Delle peggiori, pure. Perché il Milan, quel Milan, senza Ibra, era veramente poca roba e noi ci siamo fatti prendere dalla paura di vincere. Dio, quanto mi manca il mio Napoli dell’anno scorso. Adesso tornano le Coppe, quelle che prima mi infastidiva che in tanti considerassero una distrazione, e che adesso guardo come l’aria che torna. Spero che si torni a respirare nel ritmo serrato dei tre impegni settimanali tutti altrettanto importanti. Spero che non ci siano più battute di arresto. Spero mi facciano sognare ancora con la speranza di entrare in Europa da qualche altra parte, da un pertugio bellissimo perché magari per me inaspettato. Non vedo l’ora sia giovedì. Perché lunedì, al San Paolo, non voglio andare a vedere l’ennesima partitaccia contro le odiosissime maglie gialle. Finisce la partita e non ho voglia di accendere il pc. Mangio un paio di paste, butto giù una grappa forte e mi gusto il caffè di Francesca. Una bella domenica, bellissima. In fondo è proprio perché è stata così piacevole che vedo il bicchiere mezzo pieno. Me ne vado serena anche se penso che il pareggio, nella vita, non esiste. Il che, di domenica, è già possibile considerarlo un trionfo. Torno a casa ed accendo il pc. L’unica rammaricata è Lisa dal Brazil. Lei ed io non siamo gente che si accontenta. Trovarla lì l’ennesima certezza. E Forza Napoli. Sempre.

(da www.ilnapolista.it)

Numeri, parole e musica.

Ti è mai capitato di dubitare del tuo talento? E di non volerlo più tra le scatole? Di sentirlo ingombrante? E lo senti il peso del pubblico? Quando scrivi, intendo. Scrivi per loro o solo per fare uscire tutta quella musica che hai dentro? E, una volta che hai composto la melodia senza attenerti al pentagramma, non ti senti dentro uno strano silenzio? O forse non riesci a liberarti di tutte quelle note? E come sono quelle note? Stridenti? Acute? Mezzitoni? Semicrome? Numeri, forse! Non è forse tutto basato sui numeri? Ecco perché hai sempre invidiato quelli che conoscono così bene la matematica. Quelli delle equazioni, dei risultati esatti, delle statistiche, delle probabilità, dei numeri che fanno la differenza. Non ti sembra, piuttosto, che a volte i numeri possono anche non dare un risultato esatto? Aggrovigliarsi in un problema irrisolvibile ma di cui, all’improvviso, ti appare netta la soluzione? E di tutti questi numeri, tu, proprio tu, dimmi, cosa te ne fai? Li sgrani come se miagolassi mentre reciti il rosario? Li metti in fila, li scomponi, li dividi per due? Li annoti uno in fila all’altro su un foglio bianco come si fa con le probabilità del gioco del lotto, pensando: ecco, prima o poi uscirà questo sulla ruota di Napoli? E ti fidi dei numeri? O forse li guardi circospetto perché non sai cosa hanno in mente di suggerirti? E tu? Lo sai tu qual è il tuo mood? O ti perdi in un loop? E ti capita di ritrovarti, in mezzo a tutte quelle note, quando sono stonate? Imbracci la chitarra e aggiusti le corde fino a trovare il suono giusto? E quanti tasti ha il tuo pianoforte? Come ti regoli con quello nero, a destra, che quando ci pigi su il dito sembra quasi saltare dall’emozione? Pensi mai che prima o poi si allineerà con quello di sinistra che invece ti risponde così bene? Dubiti mai di ciò che scrivi? E di ciò che pensi? E di chi ti legge? Ti chiedi mai cosa cerchino in mezzo a tutte quelle parole? E cosa ci trovino? E si ci trovano giusto il senso che intendevi metterci tu? E non trovi sia un sacrilegio mostrarti così nudo? O forse credi sia quella la vera magia? Non importa. Non rispondermi. Respira. Scrivi.

Questi prezzi sono un oltraggio ai napoletani

Per me è una follia fissare prezzi così alti per una partita di Champions senza neppure garantirci, l’anno prossimo, una Champions. E non parlo soltanto dei prezzi esorbitanti delle Tribune, ma soprattutto dei 100 euro per l’acquisto di un posto nei Distinti, un settore in cui non solo non ho un posto assegnato, per cui sono costretta a mettermi in fila dal primo pomeriggio per accaparrarmi un posto decente da cui guardare, ma in cui persino i bagni sono da terzo mondo. Mettere un prezzo così nei Distini significa trattarmi da mulo e da deficiente. E’ come se qualcuno volesse privarti del diritto di andare allo stadio. Perché in un momento in cui in città non funziona un cazzo, come ci ha detto il Presidente, e la gente perde il lavoro e la speranza e le mense dei poveri sono piene di esponenti della fu media borghesia, mettere dei biglietti a questi prezzi assurdi è da folli. Le curve a 30 euro sono la cosa che mi manda più in bestia, però. Perché trovare i biglietti di curva è un’impresa ai limiti dell’impossibile e alla fine i biglietti di curva sono già quasi tutti “assegnati”. Non sappiamo come funziona la vendita dei biglietti di curva? Non li abbiamo visti quelli che arrivano con i sacchi e senza neppure i documenti in copia e si accaparrano quantità esorbitanti di biglietti? Sorge il dubbio che i 30 euro per le curve, che non rappresentano un prezzo tutto sommato esorbitante, dipendano dal fatto che Aurelio sa che se li avesse portati più su si sarebbe ritrovato le orde barbariche sotto casa. Se preferisce avere uno stadio pieno di tifosi occasionali arricchiti che fischiano la squadra si accomodasse. Però la smettesse pure di chiedere l’incitamento del pubblico. Per quanto mi riguarda, chi si presta a pagare un prezzo così alto perché lui continui a trattarci come bestie si merita esattamente tutto quello che ci consegna ogni volta che può. Sacrifici sì, quanti ne vuoi. Ma questo è come avere la faccia sporca di saliva dopo uno sputo. È inaccettabile.

Non leggete, vi prego, la mia firma

Mi sono ammalata di lettura accanita grazie a mia madre: ha sempre letto di tutto ed io la guardavo piccolina e restavo incantata dall’odore dei libri e dalla sua espressione assorta, da tutto quel colore sul comodino, quei libri messi lì in pila in un disordine apparente, e i quadernetti in cui annotava le frasi più belle, benedetta abitudine che mi ha passato sin da bambina. È così che ho imparato il rispetto per ciò che si legge, prima ancora che per chi lo scrive. Il leit motiv di queste mie ultime settimane è stato litigare con chi, prima di leggere un articolo, ne legge la firma sotto, il che, per una che scrive, può essere una maledizione. Perché se è vero che scelgo di leggere solo i giornali che mi piacciono, è vero pure che anche in quelli più lontani da me c’è qualcuno che scrive cose che condivido, a prescindere dalla sua fede calcistica o dal colore politico. Sogno un mondo in cui non esistano etichette, in cui leggi un articolo dalla prima parola all’ultima, comprese le virgole e, solo dopo, vai a guardare chi l’ha scritto, e solo per curiosità. Un mondo in cui sorprenderti se lo scrittore che reputi il più banale al mondo, per una volta, interpreta un tuo stato d’animo. Credo che un lettore debba innanzitutto avere rispetto per ciò che legge, per le parole, prima ancora che per la firma. Sì, è vero, siamo ciò che scriviamo, ma non solo, e sapere che non necessariamente tutto quello che scrivo piace mi costringe ad essere schietta, a non scrivere per chi mi legge ma, soprattutto, per me. Io sono quello che scrivo, è vero, ma sono anche quello che faccio, quello che penso, quello che ho dentro e che forse non scriverò mai. Gli innamoramenti legati alla scrittura mi fanno paura, perché come tutte le forme di amore esclusivo ti portano a guardare le cose con occhio sporco e poco allenato. Dovrebbe essere una regola per tutti: prima di leggere, pulirsi la testa e il cuore dai pregiudizi buoni o cattivi che portano, prima o poi, a naufragare. Il primo dei dieci diritti del lettore indicati da Pennac è quello di non leggere. Bene, se la firma non vi piace evitate di leggere. Ma, santiddio, se iniziate a leggere, il mio nome, almeno, leggetelo alla fine.

(da www.letteratu.it)

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