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mai più dietro un pilastro

Archivio per la categoria “Èvviva”

Letterina di Natale (una parte di quello che vorrei)

Una lucina di quelle da attaccare ai libri per leggere al buio.
Occhi che brillano, sempre.
Una borsa nera grande ma non troppo, di pelle morbida e con la tracolla.
Il sorriso più bello che ho.
Un libro di Fred Vargas.
Struffoli. Tanti da dire basta.
Un libro di Gimenez Bartlet.
Un’insalata di rinforzo come dio comanda.
Tempo, tanto di più.
Vedere la gioia dei miei figli quando Babbo Natale bussa alla porta. Fermare l’istante in cui, come accade ogni anno, si abbracciano, iniziano a saltare e si lanciano sui regali per scartocciarli frenetici e poi dire: “UAAA quello che ho chiesto io!!”. Una goduria.
L’ispirazione ogni volta che vorrei.
Non serenità, ma allegria, che la serenità non ha lo stesso sapore dell’allegria.
Sempre lo stesso vulcano di idee.
Saper fare fotografie indimenticabili.
Cancelleria da toccare.
Un libro da scrivere (cioè, riuscirci, a scriverlo).
Il Napoli in Champions League.
Il Napoli che si mangia la classifica rimontando i due punti di penalità.
Una fede greca.
Un paio di orecchini piccoli e luminosi.
Tempo per praticare (nam myoho renge kyo).
Un credito telefonico illimitato.
Napoli meno provinciale.
Spazio per scrivere, molto di più.
Le mie Oj vite come le ho viste ieri: felici.
La mano emozionata di mia sorella Lucilla.
Una sorpresa.
Auguri inaspettati.
Un ultimo dell’anno meno deprimente del solito. O almeno meno malinconico!
Una pallina di vetro colorata per l’albero di Natale.
Una raccolta di Bruce Springsteen per arrivare preparata al concerto di maggio.
Una pallina di quelle che le rovesci e scende la neve dentro.
Il biglietto per il concerto di Pino Daniele.
Un mutuo per pagare la babysitter ogni volta che mi serve.
Una casa sempre in ordine, pulita e profumata.
Vivere sotto pressione: lo adoro.
Scrivere. Scrivere. Scrivere.
Una giornata da passare interamente a letto a leggere. Giusto il tempo di alzarmi a far pipì.
Un viaggio a Parigi.
Un viaggio a Istanbul.
Un viaggio a Tel Aviv.
Raccontare una guerra.
Raccontare un dolore.
Raccontare una gioia.
Raccontare.
Meno invidia. Il mondo se ne cade di invidia. E l’invidia è il sentimento più brutto che esiste.
Una politica che sia davvero politica.
Che i miei interlocutori dimentichino, per qualche istante, a volte, che sono una donna. E che si rilassino.
Dare. Dare. Dare.
Lasciare un segno, sempre.
Un piumino bianco un po’ più lungo di quello che ho.
Un paio di stivaletti con la pelliccia dentro.
Calze colorate.
Miniabiti. Tanti.
Ombretti, anche se poi uso sempre lo stesso.
Colori in quantità.
Lettere a mio fratello Theo, di Vincent Van Gogh.
Tornare a fare collage con le lettere ritagliate dai giornali e regalarli.
Saper disegnare.
Mio marito oberato di lavoro (e di soldi).
Il mio amico direttore di un giornale.
Un ufficio stampa di quelli che ti divertono.
Un’idea in cui perdermi.
Una vacanza diversa. Che sia vacanza.
Consapevolezza per tutti.
La gente per strada che cammini a testa alta, ti guardi e ti sorrida. E magari ti dia anche il buongiorno.
Passeggiare al centro storico come durante la Notte d’Arte di qualche settimana fa.
Scampia libera.
Una borsa bordeaux.
Più attenzione alle esigenze e ai problemi delle donne.
Una bottiglia di cognac.
Bicchieri da vino rosso. Li ho rotti tutti (che metto a tavola, domani?).
Una spilla di lana colorata.
Un regalo che mi faccia dire: “diamine, l’ha scelto proprio per me!”.
Tovaglie nuove. E lenzuola. E asciugamani.
Pensieri felici come nell’isola di Peter Pan.
Bambini felici in tutto il mondo.
Una lettera. Mia.
Lenti a contatto nuove.
Un paio di occhiali da vista nuovi.
Vabbè, pure un paio di occhiali da sole, nuovi.
Risposte.
Mio figlio un po’ più tranquillo.
Una casa nuova per mia madre.
Una casa con una vetrata che affaccia direttamente sul mare.
Una giornata di movimenti liberi, per 24 ore.
Il mare in tempesta.
Complicità.
Empatia.
Rabbia (ma positiva).
Avere soldi e tempo per fare milioni di regali a tutti.
Un tablet.
Desideri per tutti, perché se non desideri niente muori.
Respiri e sospiri.
Emozioni.
Guardare da dentro i meccanismi che non conosco.
Stare per qualche ora nella testa della gente.
Intrufolarmi senza essere vista.
Sorprendermi.
Conoscermi.
Suggerimenti e spunti.
Condivisioni.
In fondo, a parte una cosa di soldi, niente più di quello che già ho.
Buon Natale, Linkiesta. E grazie. Non facevo una letterina così da almeno dieci anni. Da ricordare!

(http://www.linkiesta.it/blogs/evviva)

Intervista a Erri De Luca: “Ma se Napoli le piace tanto perché non ci abita?”.

Per dodici ore è stato il tormentone del web. La pagella de Il Sole 24 Ore sulla qualità della vita in 107 province italiane non è piaciuta a Erri De Luca, soprattutto per quanto riguarda Napoli. Dal dossier de Il Sole, su sei indicatori considerati, la città risulta penultima, appena prima di Taranto. Napoli è ultima su 107 per qualità della vita, 84sima, e fanalino di coda tra le grandi città, per servizi, ambiente e salute. 93sima per affari e lavoro. 91sima per ordine pubblico. Meglio piazzata per frizzi e lazzi: per il tempo libero si piazza al 78simo posto su 107.

Le dichiarazioni di Erri De Luca hanno fatto il giro del web spaccando il popolo di Internet. Una parte è rimasta affascinata dalle parole usate dallo scrittore di “Montedidio”, l’altra invece, si è scagliata contro. Le frasi di De Luca sulla classifica de Il Sole 24 ore risalgono, però, a due anni fa.

In un’intervista rilasciata al Tg2000 nel 2010, lo scrittore si rivolgeva a chi aveva stilato la pagella relativa a quell’anno rifiutando l’idea di una classifica: Napoli è troppo grande, troppo immensa, è troppo per poterla raccontare con degli indicatori, spiegava. E usava le parole, Erri, in modo meraviglioso e sublime. “Ignoro i criteri di valutazione ma dubito che siano adeguati allo scopo. C’è qualità di vita in una città che vive anche di notte, con bar, negozi, locali aperti e frequentati, a differenza di molte città che alle nove di sera sono deserte senza coprifuoco.

Considero qualità della vita poter mangiare ovunque cose squisite e semplici a prezzi bassi, che altrove sarebbero irreali. Considero qualità della vita il mare che si aggira nella stanza del golfo tra Capri, Sorrento e Posillipo. Considero qualità della vita il vento che spazza il golfo dai quattro punti cardinali e fa l’aria leggera. Considero qualità della vita l’eccellenza del caffè napoletano e della pizza. Considero qualità di vita la cortesia e il sorriso entrando in un negozio, la musica per strada. Considero qualità della vita la storia che affiora dappertutto. Considero qualità della vita la geografia che consola a prima vista, e considero qualità della vita l’ironia diffusa che permette di accogliere queste graduatorie con un ‘Ma faciteme ‘o piacere’”. Belle, bellissime parole, che in poche ore sono tornate a fare il giro di Internet.

Per verificare se, a distanza di due anni, il pensiero di Erri De Luca sulla sua città di origine fosse cambiato, l’ho chiamato: “Confermo tutto – ha detto con voce ferma – sono un difensore strenuo del luogo da cui provengo e lo difendo da statistiche arbitrarie”.
Dove vede l’arbitrarietà degli indicatori e della classifica? “Nel fatto che la qualità della vita non è fatta solo di servizi pubblici, ma di tante altre cose, quelle che raccontai due anni fa. Per me anche poter andare a mangiare una pizza, mangiarla buona e pagare poco rappresenta un’ottima qualità della vita”.

Ma lei sa che oggi a Napoli più che di qualità della vita bisognerebbe parlare di qualità di sopravvivenza? “Ma quale sopravvivenza! Sopravvivenza è una parola molto seria che bisogna usare con proprietà. Napoli non ha nessun problema di sopravvivenza. Ce li aveva quando io me ne sono andato, a 18 anni, ma ora quella Napoli non esiste più. È cambiata in meglio”.
Provo a spiegargli cosa vuol dire abitarci, in città, viverci quotidianamente. Gli racconto che qui da noi siamo stati senza refezione scolastica fino a fine novembre. E che questo non è normale, perché nelle città dove la qualità della vita è buona la refezione inizia a settembre. Gli ricordo che, dalle nostre parti, se cammino per strada, di sera, a Marianella, a due passi da Scampia, può capitare che 14 pallottole mi colpiscano perché mi scambiano per un pregiudicato che con me non ha niente a che fare. Che non abbiamo risolto il problema spazzatura e che neppure, forse, siamo in grado di farlo da soli. Che qui si muore di tumore e neppure te lo fanno urlare. Che la sanità non funziona, tranne poche eccezioni, che non c’è verde dove portare i tuoi figli, che le strade fanno schifo tanto che neppure i passeggini possono camminare. Che è tutto un tappeto di cemento e macchine tra le quali fare lo slalom con tuo figlio ad altezza dei tubi di scappamento. Che affari non se ne fanno più, che i negozi muoiono ogni giorno, a meno di non pagare il pizzo alla camorra. Che lavoro non ce n’è e persino quello a nero è in crisi. Che, a Napoli, i parcheggiatori abusivi la fanno da padroni, nonostante la legge e i suoi tutori. Che non puoi muoverti con i mezzi pubblici perché la città è immobile.
Ma niente, lui continua a dirmi che Napoli è bellissima, che tutto questo non ha niente a che vedere con la qualità della vita e, a proposito di trasporti, che abbiamo la Metropolitana, che prima non c’era. Sì, Erri, ma ti ho detto che la Circumvesuviana non passa più. “E allora? – mi fa candido – la Circumvesuviana unisce la cintura, non è LA città”. Ma la classifica del Sole riguarda la provincia: che si fa, la bruciamo viva e dimentichiamo che esiste, come quando abbiamo investito sul lungomare e non su Scampia?
Allora gli chiedo se non sia forse che chi è andato via è sempre più nostalgico. Che rimpiange la mozzarella di bufala, il pane cafone, le luci di San Gregorio Armeno, lo splendido lungomare, le “pummarole del piennolo” appese fuori ai negozi, la scaramanzia, gli odori dei vicoli, la cordialità, la gente, Napoli. Che non sia peggio chi se n’è andato che chi resta. Che sono loro, quelli del “Jamm ja!”, i nemici da combattere. Mi risponde di no, che lui non è più indulgente nei confronti della città solo perché è andato via, ma che pensa davvero sia bello viverci.
Gli chiedo se ci tornerebbe, a casa sua, e mi risponde di no: “Ma solo perché abito in un posto isolato e non riuscirei più a vivere in una grande città”. Erri De Luca vive in provincia di Roma, che per qualità della vita è al 21simo posto della classifica de Il Sole 24 Ore, tanto per intenderci. Eppure qualche tempo fa aveva dichiarato, a proposito di Napoli: “Non ho diritto di dirmi suo figlio, non mi è stata madre, ma causa e io sono uno dei suoi effetti”. Anch’io sono uno dei suoi effetti, Erri. Sono nata qui, e Napoli è la mia matrigna. Di colori, suoni, e pizze economiche non si vive. Sono belli, bellissimi da immaginare, ma non ci fanno stare meglio. Non a tutti, almeno. Se hai il pizzaiolo sotto casa, quando vieni dalle nostre parti, sei fortunato.
A questo punto si irrigidisce e la telefonata prende una brutta piega. “Prenda la mia dichiarazione e ci aggiunga la sua. Voglio solo troncare questa telefonata, non mi interessa”, dice frettoloso. Invece forse gli interessa troppo, altrimenti non avrebbe tanta fretta di scappare. Di nuovo, come quando aveva 18 anni.

(http://www.linkiesta.it/blogs/evviva)

C’è un posto speciale all’inferno per le donne che non aiutano le altre

Una mia amica ieri ha aperto, su Facebook, una pagina di mobilitazione per il tempo prolungato a scuola. Il  fatto è che a Napoli, quest’anno, il tempo prolungato parte in ritardo, molto in ritardo,  complicando terribilmente le cose alle mamme che lavorano. La pagina Fb della  mia amica vuole dare notizie sulla refezione scolastica, mettere ordine nelle  voci che si susseguono, spiegare perché la refezione non parte e quando potrebbe  andare a regime, raccogliere informazioni su mobilitazioni di genitori e scuole,  unire mamme che hanno tutte lo stesso problema, in tutta la città. In mezza  giornata, la pagina ha raccolto solo 32 adesioni. Poche, troppo poche  considerando che a Napoli il problema della refezione che non c’è riguarda più  di 30mila bambini.

Certo, Su Fb funziona il passaparola, ci vuole tempo per far crescere una  pagina del genere, ma la cosa che mi ha colpita sono stati i commenti di alcune  mamme man mano che la pagina veniva condivisa nel web. Una scrive: “Te ne  pentirai! Appena i tuoi figli apriranno le vaschette di alluminio rifiuterai la  refezione!”. Un’altra dice “poveri bambini!”, dipingendo noi mamme a tempo  prolungato come delle megere che abbandonano i figli per andarsi a fare i  capelli. E che diamine. Tanto per cominciare, mi sono sempre trovata bene con la  refezione della scuola dei miei figli. Tutta roba di primissima qualità,  alimentazione più che variegata, molto più razionale e programmata di quanto  riesca a fare io con pochissimo tempo a mia disposizione.

Voglio capire che le mamme che hanno lasciato questi commenti (sono solo due,  ma si potrebbe continuare per ore) magari non lavorino, oppure lavorino a tempo  parziale e quindi hanno tutto il tempo di gestire i bambini dalle 13 in poi, ma  l’idea che ci sia chi non può farlo non le sfiora nemmeno? Per una mamma che  lavora, la priorità è avere un posto sicuro dove lasciare i propri figli mentre  cerca di portare a casa il necessario per sostenerli, mentre realizza la parte  della sua vita che esiste a prescindere dai figli, e che non deve essere  affondata, mentre opera per il bene della collettività tutta, perché le mamme  che lavorano lo fanno per tutti, non solo per sé stesse, perché il lavoro non è  un fatto privato, non solo. Invece no, le donne, alcune donne, dipingono le  mamme che lavorano come dei mostri. Come se lo facessero per la gloria  personale, come se una che diventa mamma all’improvviso debba rinunciare per  sempre a tutto il resto, persino a farsi un manicure nelle ore di scuola del  figlio.

Allora vi dico un’altra cosa. Io pure se non lavorassi terrei i bambini a  scuola a tempo prolungato. Perché non è una punizione, ma un momento di  crescita, un momento educativo, e alla scuola dei miei figli è fatto anche molto  bene. E sapete cosa? Come ha detto una mamma amica mia fuori scuola ieri, mentre  parlavamo della refezione che non c’è, per me, pur di far partire il tempo  prolungato, potremmo far mangiare ai bambini per pranzo anche tre merendine al  cioccolato, anche solo frutta, basta che ci mettano in condizione di lavorare e  vivere.

Perciò, mamme casalinghe o part time, non ve ne lavate le mani, ma appoggiate  la nostra battaglia. Voi potete scegliere. Noi no. Non ci ostacolate, perché  avrete fatto un danno grande, anche per voi. Perché ha ragione l’ex segretario  di stato americano, Madeleine Albright, quando dice: “C’è un posto speciale  all’inferno per le donne che non aiutano le altre”.

(da http://www.linkiesta.it/blogs/evvva)

Quando una piccola mamma cresce. E respira libertà.

Se c’è una cosa che adoro fare con i miei figli è uscire di sera, col buio. È  che l’ho desiderato per tanto di quel tempo che mi sembra uno di quei piccoli  momenti di felicità in cui ti senti veramente libera. Già, libera, nonostante  abbia due gnomi da tenere a bada.
La prima volta che mio marito ed io siamo  usciti di sera con loro è stata l’estate scorsa, fine estate, ma solo adesso in  fondo si può fare per davvero, adesso che il grande ha quasi sei anni ed il  piccolo quasi quattro.
È che quando ti trovi catapultata in una realtà molto  più difficile di quanto immaginavi, con un bambino insonne e sempre inquieto ed  irrequieto, cerchi soprattutto di dare un ritmo equilibrato alla tua vita, senza  neppure accorgerti che non puoi. Cerchi di scandire tempi e orari che finiscono  per fagocitare soltanto te perché l’inquieto se ne impippa e continua ad  inquietarsi ancor di più. Ma tu non sai come fare e non capisci dov’è l’errore,  perciò, per tanto tempo, perseveri. E ti ritrovi a guardare le coppie con bimbi  piccoli che passeggiano per la strada, nei paesini d’estate, mentre tu sei al  balcone a vegliare sul sonno dei tuoi figli, che chissà come, dopo una giornata  durissima, è arrivato. È che hai quasi paura di farli uscire, perché temi che le  crisi da sonno e da stanchezza, soprattutto dopo il mare, ti facciano pentire  anche soltanto di averci provato. Tra le altre cose.
Poi un giorno scopri che  puoi farlo anche tu. Anzi, lo decidi. Esci timorosa, ma con una gran voglia di  spezzare la routine, di evadere dagli orari fissi e dalle abitudini, di scoprire  il mondo con le luci di notte. Ti senti tornare bambina, hai voglia di essere  adulta. Chiami il grande irrequieto e gli dici “ti va di uscire col buio,  stasera?” e resti a guardarlo mentre gli si illuminano gli occhi e la bocca  inizia a sorridere di quel sorriso dolce dei bambini quando ricevono un regalo  inaspettato che sembra grande un mondo. E allora lo stringi al petto e gli  chiedi: “sei felice?”, ma sei tu ad esser felice, tu.
E sei felice quando li  vesti, lui e il fratello, preparando i pigiamini sul letto per quando tornerete.  Sei felice mentre guardi il più piccolo che ti viene dietro come nulla fosse,  lui che non ha mai conosciuto privazioni e non ne ha fatte conoscere a te perché  ha sempre vissuto, finora, sui ritmi e gli schemi collaudati sul fratello  complicato. Ti senti felice mentre ti vesti semplice semplice, evitando il  bianco anche se è estate, perché basta un piedino sul pantalone a sporcartelo e  tu non vuoi dover stare a guardare la macchia in una serata come questa. Ti  senti felice mentre passeggi per strada, e guardi l’orologio di continuo, non  perché è tardi, ma perché state tutti bene e puoi fare ancora più tardi, non c’è  fretta di tornare, domani non c’è scuola, si può dormire quanto si vuole, e non  ti sembra vero, e andiamo avanti, che si sta così bene qui fuori che è bello  anche vedere gli altri genitori ritirarsi mentre tu sei ancora là. E tutti ti  guardano come se fosse normale, perché lo è, ma non è normale per te.
L’hai  desiderato talmente tanto che ti sembra un momento di amore sconfinato, di  emozione grandissima, da cuore di bambina, non di mamma. Mangeresti tutte le  patatine fritte e le alette di pollo che il mondo è capace di contenere, e tutti  i gelati, le barrette dolci, le caramelle delle bancarelle di paese. E ti  sporcheresti il viso con lo zucchero filato, se ce ne fosse, e le mani con i  colori.
Poi qualcuno, dopo un paio di sbadigli, dice: “andiamo a dormire?”. E  ti incammini con loro verso casa, e per l’ultima volta guardi l’orologio. Sono  le 23,00 e sei ancora per strada. “Lo pensavi possibile, tu?” domandi a tuo  marito. “No, pensavo alla stessa cosa anch’io”. Sorridete e tu apri la bocca,  per inghiottire tutta quest’aria di libertà. Fino alla prossima volta, comunque  sarà.

(da www.linkiesta.it)

Ilaria Incondizionata (la posta del cuore passa di qua)

Nasce oggi, su questo blog, una nuova rubrica: Ilaria Incondizionata. Ovvero:  la posta del cuore senza mezze misure, a 360 gradi, per tutto ciò che il vostro  cuore potrà voler contenere o aver voglia di sputare via.

Un open space dell’anima. Un posto sacro e dissacrante, puntuale e pungente,  sorridente e lacrimevole, cinico e pietoso, sensuale e afrodisiaco, romantico e  sprezzante, sciroccante e razionale, leggero e pesante, rassicurante e  ansiolitico, piacevole e zanzareggiante, insopportabile pure, ma mai mercenario.  Poi non dite che non vi avevo avvertiti.

Scrivete, urlate e sussurrate a: ilpuglia@libero.it.

Qui dentro non ci sono condizioni, e la risposta non guarda in faccia a  nessuno.

(http://www.linkiesta.it/blogs/evviva)

Ancora su D’Orrico. Che proprio non ce la fa

Niente, D’orrico non ce la fa. Qualche giorno fa esprimevo il mio parere sul campionato di sesso scritto inaugurato dal  giornalista/criticoletterario/scrittore:diamogli un seguito a distanza di  una settimana. Sul numero di Sette di venerdì scorso, 20 luglio 2012, Antonio  D’orrico risponde a Magda Perosa, una lettrice che solleva un dubbio  relativo alla sua rubrica: “non è che le sceglie a bella posta, femmine tanto  schiappe?”. D’Orrico le risponde che la scelta dei concorrenti è affidata al  caso: “In pratica, li estraggo (a occhi chiusi) dai libri che ho in redazione  (tra l’altro ho appena fatto un trasloco e le carte sono perfettamente  mischiate)”. E, manco a dirlo, dichiara di procedere in diretta al sorteggio  sotto agli occhi della lettrice (si può fare un sorteggio sotto gli occhi di una  lettrice che non c’è??????? D’Orrico, santiddio!!!!). Il buon Antonio stavolta  estrae Galeotto fu il collier, di Andrea Vitali e Cinquanta sfumature di grigio  di E.L. James. Di quest’ultimo afferma che trattasi di “libro che è attualmente  primo assoluto nella classifica dei bestseller e appartiene in pieno al genere  erotico, se non addirittura porno (soft)”. D’istinto mi viene da pensare a  quanto mi scrisse qualche giorno fa la mia amica Laura Bentivoglio a proposito  della James “Avere fantasie sessuali è un conto, leggere di fantasie è un altro,  a meno che non siano scritte con rara maestria da lasciare senza fiato poiché  avverti i colpi di frustino lungo tutta la spina dorsale. Ma non mi sembra il  caso della James. Queste stravendite della letteratura pippaiola rosa  (consentimi), mi allarmano: lo guardo come un fenomeno alla Rowling, che pare  una sorta di saga di una tristanzuola Potter del bondage”. Come non condividere?  Ma, tutto questo, D’Orrico non lo sa.

Ecco allora la mia proposta. Se il suo metodo è scegliere a caso nella sua  libreria, arricchiamogliela, ‘sta libreria. Dateci dentro, mettetevi d’impegno,  consigliamo ad Antonio un buon elenco di libri della letteratura erotica cui  attingere per il campionato di sesso scritto. Proponete, chi più ne ha più ne  metta.

Apriamo una sottoscrizione pubblica, se necessario. Salviamo D’Orrico.  Aiutiamolo. Tiriamolo fuori dal limbo della mediocrità della lettura.  Proviamoci!

(http://www.linkiesta.it/blogs/evviva)

Su uomini e donne. Perché Bergonzoni mi ha sempre fatta sorridere (cinicamente).

– Caro, ti devo lasciare.

– Te ne vai, hai qualcosa sul fuoco?

– No, ti lascio, me ne vado per sempre.

– E me lo dici così…

– Vuoi che mi cambi?

– Cosa ti prende?

– Mi sono accorta che non faccio mai l’amore.

– Ma non è vero, lo facciamo e anche molto.

– No: è già fatto, noi al massimo lo usiamo, ne prendiamo un po’, ce ne  diamo, lo scambiamo, ma non lo facciamo noi, esisteva già, e io invece vorrei  crearlo, inventarlo..

– Ma se due si amano è come se comunque lo creassero da zero.

– E’ come se, ma non è proprio così.

– E da quando la pensi in questo modo?

– Da un minuto: appena l’ho capito, l’ho detto, non ti nascondo nulla.

– Non pensi a quello che abbiamo passato insieme?

– E tu non pensi a quello che ci è passato davanti mentre eravamo insieme e  non abbiamo visto, fermato, preso… Il passato non è ciò che non è più, ma ciò  che è solo filato via e io voglio raggiungerlo, non è una questione di tempo. è  una questione di dimensione, altra. Forse ci siamo ridimensionati, ma nel senso  troppo relativo, dobbiamo ridimensionarci in un senso più largo.

– Ma non si può avere tutto.

– Ecco, come siamo ridotti dall’unica dimensione. Chi ha detto questa frase  la prima volta, cosa intendeva e perché ci crediamo tutti senza ombra né dubbio?  Possibile che “tutto” spaventi? Che assuefazione è mai questa che non ci  permette altro che la parte permessa?

– Oggi sei strana, hai qualcosa di diverso e mi fai paura, non sei del tutto  in te.

– Bella questa frase, caso. “Del tutto in te”. Cosa c’è del tutto in noi?

– Una parte.

-E io ho deciso che non mi basta più. Voglio provare a essere tutto, in me,  non una parte.

– Ma non ci riuscirai mai.

– Chi lo dice?

– Io, gli altri, tutti.

– Tutti! A quel tutti però ci credi, allora c’è una possibilità che in questo  caso si avveri…

– Intendevo non tutti, un totale, il totale non è proprio tutti.

– Esatto. La totalità non mi interessa, è comunque quel che risulta da una  somma più un’altra somma, ecc. ecc. Io intendo tutto, anche quello che non  risulta, che non è sommabile, enumerabile, calcolabile, appunto l’amore.

– Ma non sei mica Dio.

– Perché sono una donna o in generale?

– Tutte e due.

– Il tuo è un discrimine, un discrimine contro l’umanità.

– Se vuoi andare vai: hai la vita davanti.

– Esatto: e voglio raggiungerla, non stare più dietro.

(Alessandro Bergonzoni, Aprimi Cielo, il Venerdì di Repubblica del 15 giugno  2012)

(da http://www.linkiesta.it/blogs/evviva)

Cazzo, fica, clitoride e frenulo. Ovvero: parla di sesso come lo fai. Senza paura. Dedicato ad Antonio D’Orrico.

Da qualche settimana, Antonio D’Orrico (giornalista, critico letterario e  scrittore) ha inaugurato, su Sette, il campionato mondiale di sesso scritto. I  duellanti sono, da un lato, gli scrittori maschi e, dall’altro, le scrittrici  femmine. Tre puntate pubblicate finora, tutte e tre vinte dagli uomini, o  meglio, in tutte e tre D’Orrico ha decretato arbitrariamente (poiché la rubrica  è ovviamente a sua firma) la vittoria di un maschio.

Volo leggiadra e rapida su alcune affermazioni di D’Orrico che potrebbero  essere tacciate di maschilismo e di stupidità. Ad esempio: “So che le donne  scrivono peggio degli uomini – non è un’accusa, è una constatazione, amichevole,  come nei tamponamenti – ma non so perché. Sospetto che il perché lo si possa  trovare in due frasi. Una di Ennio Flaiano (“Le donne scrivono per vendicarsi”). L’altra di Henri Michaux (si scrive per mitomania)”. A parte la supponenza nel  dichiarare l’assunto di partenza (SO al posto di RITENGO, per esempio), mi fa  sorridere la vendetta attribuita alle donne. Vendetta verso chi? Verso i maschi?  Che c’hai la coda di paglia? E la mitomania? Il mondo è pieno di mitomani  uomini, bello mio. Mi soffermo, invece, su alcuni degli scrittori a cui il  giornalista ha assegnato il premio a puntate.

In particolare, guardiamo al numero di Sette del 29 giugno scorso. D’Orrico  mette a confronto, per le donne, Mary Gaitskill con il suo “Oggi sono tua” e,  per gli uomini, Henning Mankell, con “Ricordi di un angelo sporco”. La Gaitskill  scrive: “Lei gli abbassò la lampo dei pantaloni. Ferma, disse lui, aspetta. Lei  lo afferrò per le spalle, aveva una presa inaspettatamente forte e lo tirò sul  tappeto. Si sentiva assalito e invaso. Non era questo che aveva in mente, ma in  qualche modo rifiutare l’avrebbe fatto sembrare meno virile di lei. Le sfilò  schizzinosamente i vestiti. Le strinse il seno fra i denti e la morse. La morse  di nuovo, più forte. Lei gridò. Voleva farla sanguinare. Le masticò il seno”. D’Orrico la boccia a piè pari e assegna la palma di miglior scrittore di sesso a  Mankell: “Hanna aveva già preparato il mango e mentre lui lo mangiava  pensieroso, seduto al tavolo nella sala da pranzo, gli si mise accanto. Poi andò  nel bagno, lasciò cadere alcune gocce di limone nel grembo e andò a stendersi al  suo fianco. Gli accarezzò delicatamente un braccio. Dopo qualche istante lui si  girò e col frenetico desiderio di sempre cercò di penetrarla. Ma neppure questa  volta ci riuscì, anche se Hanna aveva sentito che il suo sforzo era stato più  energico e prolungato del solito. Quando si arrese, erano entrambi esausti”.

A parte che l’accenno al mango mi fa ridere e fa sparire – casomai esistesse – ogni traccia di lussuria e sensualità –, devo entrare nei dettagli? No, perché  scegliere come vincitore uno che fa scivolare le gocce di limone nel grembo,  evocando, in tal modo, il banalissimo mito dell’utero femminile procreatore,  vuol dire già dichiarare in partenza da che parte si sta, no? Ce l’hai dipinta  in testa, la vittoria dei maschi. E poi, mica gli faranno paura i morsi ai  capezzoli descritti da una donna? No, perché l’impressione è questa, un po’. E  perché questo continuo battere sull’impotenza maschile? Non capisco. Ma mi  assale un dubbio. Che D’Orrico non abbia ben compreso il tema. Voglio dire: si  parla di sesso scritto, no? E la parola “sesso”, in ogni vocabolario che si  rispetti, è riferita, in senso esteso, all’attività sessuale.

A tal proposito, D’Orrico avrà mai letto Anais Nin? O Lucia Extebarrìa?  Magari no. E allora gli rinfresco un po’ le idee. Partiamo dalla Extebarria: “Il  sesso con Romano, amplessi e scontri appassionati, piaceri e dolori reciproci,  era stato coinvolgente, a livelli quasi insopportabili. Entrambi accecati, il  silenzio costellato dai respiri e dagli ansimi, i ritmi conturbanti e rudi del  sesso, e qualche ‘Ti piace, eh, troietta?’ che poteva anche suonare ridicolo ma  che, invece, eccitava Valeria al parossismo, perché la faceva impazzire che  Romano verbalizzasse tutto, e perché quel franc parler la spingeva a esplorare  tutte le potenzialità del proprio corpo, a volte in modo tanto temerario quanto  devoto, cercandosi a tentoni nel buio, ansiosi di nuovi contatti, misuravano le  proprie forze e imparavano nuove abilità, e qualsiasi movimento di Romano  produceva in Valeria una reazione immediata; lo accoglieva spalancando le gambe  e la bocca, con un’urgenza esplicita che rasentava il delirio. A volte  ingaggiavano schermaglie assurde, prendendosi con violenza sul divano,  strappandosi la roba di dosso, cadendo per terra, stirandosi, torcendosi,  appiccicati l’uno all’altra, senza regole”. E la Extebarria continua per  un’altra intera pagina scendendo nel dettaglio di scopate a quattro zampe,  frenuli, clitoridi, cazzo e culo. Insomma, chiama le cose col loro nome,  ecco.

E veniamo ad Anais Nin. Che devo fare, trascrivere tutto intero il suo “Delta  di Venere”? Direi che ce lo possiamo risparmiare, no, D’Orrico? Cito una frase  per tutte, perché mi serve per arrivare dritto al punto. Anais racconta ciò che  esclama il suo protagonista uomo in direzione della protagonista donna: “come ti  ho vista, mi è venuto duro”. Ed è tutto là, D’Orrico bello.

Perché se alla voce sesso, in senso estensivo, in ogni vocabolario trovi che  vuol dire “tutto ciò che si riferisce all’attività sessuale”, l’attività  sessuale la puoi descrivere solo con nomi propri che vivaiddio esistono nel  nostro vocabolario. Lo spiega bene la Nin nella prefazione del suo Delta di  Venere: “Avevo l’impressione che il vaso di Pandora contenesse i misteri della  sensualità femminile, così diversa da quella maschile e per la quale il  linguaggio dell’uomo era inadeguato. Il linguaggio del sesso doveva ancora  essere inventato. Il linguaggio dei sensi doveva ancora essere esplorato”.

Insomma, Antonio, chiama le cose per quello che sono, non aver paura. Sesso.  Cazzo, figa, clitoride, frenulo, scopare. E dai voce anche alle donne, non  pensare, in modo presuntuoso, che da maschio puoi assegnare premi di categoria  solo ai maschi. E, soprattutto, evita dichiarazioni che ti fanno solo prestare  il fianco. Perché chiudere l’ultimo numero della tua rubrica con “il campionato  machi contro femmine di sesso scritto è per questa giornata sospeso. Per  questioni di spazio e anche perché (visto come sono andate le prime tre partite)  non mi sembrava il caso di infierire”, si presta a due interpretazioni soltanto.  La prima è che parti prevenuto e quindi pensi che anche la quarta puntata  avrebbe decretato un vincitore maschio. La seconda è che hai una paura fottuta  delle donne, e per  questo ti vanti di non infierire, perché sennò ti  mettono sotto. E a te, come uomo, piace stare sopra.

Tu dici che noi siamo arrabbiate (fortunatamente ci risparmi il clichè del  ciclo mestruale). Potrei risponderti incitandoti a fare più sesso. Però sarebbe  un’idiozia. No?

(da http://www.linkiesta.it/blogs/evviva)

Quando il commerciante è onesto ma tu non te lo aspettavi e ti senti che hai fatto una grandissima figura di niente anche senza farla.

Una tranquilla mattinata di paura sola con i bambini in città. Quando ti  svegli arrovellandoti il cervello per pensare a dove portarli, a come  intrattenerli per cinque-sei ore in una città che ai bambini non offre nulla, e  nella quale, per giunta, sei a piedi. Li attiri con la lusinga di una graffa al  bar (la graffa, per chi abita a Nord del Tevere, è una ciambella dolce fritta o  al forno ricoperta di zucchero che a Napoli va forte sotto Carnevale). Ti siedi  con loro sulla panchina all’ombra e ti mangi una cosa dolce anche tu. Scherzi e  giochi mentre il più grande già si lamenta che è stanco, anche se siete usciti  di casa da soltanto mezz’ora. Hai già detto “no” ad almeno cinque richieste di  acquisti di giochi tra giornalaio e negozio di giocattoli  perchésennòprendonoviziecapricci e loro sono sempre più irritati, anche perché  ieri a quest’ora erano al mare. Tornando a casa passi davanti ad un negozio di  cianfrusaglie che, in vetrina, ha esposti orologini per bambini di ogni forma e  colore. È allora che il più piccolo fa breccia sul tuo animo di mamma: “mamma,  la settimana scorsa mi hai promesso che mi avresti comprato l’orologio!”, fa.  Il cuore ha un sussulto. Non si è mai vista una mamma che non mantenga  le promesse. Il piccolo c’ha ragione da vendere, perciò guardiamo la vetrina.  Sono affascinati dagli orologi con il cinturino di gomma tipo vecchi Swatch. Il  piccolo lo sceglie arancione, il grande rosso. Entriamo a comprare gli orologi.  Si vede subito che il rosso ha qualcosa che non va. Lo sento, come una  stilettata in pieno petto. Lo avverto con il sesto senso dei pacchi da mattinata  di luglio senza scuola, eppure mi fido del negoziante quando gli dico che la  lancetta piccola non si muove e lui dice che non ha aperto la sicura (mai  sentito di un orologio che abbia la sicura) e traffica vicino alla rotellina che  cambia l’orario restituendomelo che gira. Vabbè, mi sarò impressionata. Non sarà  il solito imbroglio napoletano, forse.

Torniamo a casa e scopro quasi subito che avevo ragione. L’orologio rosso  toccato al più grande perde minuti ogni tanto, per cui è destinato a viaggiare  in ritardo. Solo che lo accumula, il ritardo, e sembra che si fermi per quanto  viaggia piano. Vero è che mio figlio non è in grado di leggere l’ora, ma la  rabbia verso il negoziante monta e io con lei, perciò mi ripropongo di tornare  al negozio all’apertura pomeridiana. Intanto mi carico da sola. Scoccano le  16,45 e dico a mio figlio: “andiamo a litigare con il negoziante”. Diseducativo,  lo so, ma sono certa che mi farà storie, certa certissima che si impunterà anche  di fronte al faccino del bambino, sicura che l’abbia fatto apposta e che non  accetterà di cambiarmelo. Così, metto in tasca lo scontrino, che chissà come non  ho gettato via appena tornata a casa, e mi dirigo incattivita verso la meta. Mio  figlio mi segue circospetto e ubbidiente. Fiuta l’odore del sangue. Gli piace.  Mannaggia a me. Arriviamo ed entro come un kamikaze. “Scusi, stamattina ho  comprato due orologi, ma questo non funziona, si ferma” e gli  porgo  l’orologio rosso da 5 euro guardandolo dritto negli occhi. Sento in sottofondo  la musica di “Mezzogiorno di fuoco”. Ho la mano sulla fondina. Lui non batte  ciglio “va bene, adesso cambiamo la pila”, risponde. Cazzo, mi ha fatta. Già mi  immagino mentre torno a casa e scopro che non era la pila il problema ma un  marchingegno guasto all’interno degli ingranaggi dell’aggeggio. Mi vedo  domattina nera come la pece tornare di nuovo al negozio, i capricci di mio  figlio di fronte ad un pacco non riparato. Fremo. Sudo. Sto male. Tutto questo  in pochissimi secondi. Poi, il negoziante, fa: “però, signora, perché non ne  sceglie un altro?”. Lo guardo stupita, come se mi avesse strappato i vestiti di  dosso e gettati in mezzo alla strada lasciandomi completamente nuda di fronte a  lui. Mi ha fatta di nuovo. Mio figlio si illumina, dice che ha visto quello  azzurro Napoli. Io sorrido come una deficiente e faccio spallucce mentre lo  accompagno a sceglierlo dalla vetrina. Il negoziante lo prende, regola l’orario,  glie lo mette al polso e gli carezza i capelli. lo ringrazio e saluto mentre  usciamo dal negozio. Ho la coda impigliata tra le gambe. Appena fuori, con  ancora il commerciante alle spalle, mio figlio mi guarda e dice: “mamma, perché  non ci hai litigato con il negoziante?”. Ecco come sentirsi un’idiota di fronte  ad un bambino di quasi sei anni. Sorrido mentre penso che non c’è proprio niente  da sorridere: ho fatto una grandissima figura di niente. Raccolgo tutto ciò che  resta della mia dignità e gli rispondo: “sai, tesoro, anche le mamme a volte  sono completamente sceme”. Ecco, se non fossi stata così pronta nel ridere e  far ridere lui e nel mostrarmi assolutamente umana, avrei perso la sua stima per  sempre. Peccato di mamma. Rendiamo grazie al commerciante.

(da http://www.linkiesta.it/blogs/evviva)

Quanta verità, a volte, nei cliché.

Sabato 30 giugno. Dopo non so quanti mesi, mio marito ed io ci concediamo   poco più di 24 ore da soli, senza bambini, lontano da casa. Per il suo  compleanno, il mio consorte ha avuto regalato un pacchetto Smart Box, di quelli  che comprendono una notte in albergo a mezza pensione, bibite e dolci esclusi.  Per sfruttare al massimo il tempo di permanenza scegliamo un posto più o meno  vicino: Monte Porzio Catone, in un bell’albergo con piscina, immerso nei  castelli romani. Arriviamo in albergo che sono le 12, nel picco del calore  (il termometro dell’auto segna 42° esterni), ma la receptionist Chiara ci  comunica che il check in avviene dalle 14 in poi. Ce lo comunica con un certo  sadismo, aggiustandosi il toupé e, noto, dopo aver controllato sui nostri  documenti la provenienza geografica. Diavolo, siamo in provincia di Roma, mica a  Pordenone! Allontano il pensiero, magari non è perché siamo di Napoli, magari ha  qualche problema tutto suo. Siamo rilassati e ben disposti, perciò non ci  perdiamo d’animo: andiamo a pranzo in una cantina tipica, prendiamo possesso  della stanza, riposiamo come bambini e poi ci godiamo la piscina fino a  sera. Il giorno dopo idem. Il check out avviene alle 10, poco male, siamo  talmente ben disposti che lasciamo i bagagli al deposito bagagli e torniamo in  piscina, pronti a goderci la serenità del mattino. Arriviamo che siamo soli.  Facciamo pace col mondo. La piscina, minuscola, è tutta per noi, completamente.  Ci appisoliamo nonostante il caldo intenso, restiamo stesi all’ombra, un  tuffetto ogni tanto nell’acqua splendidamente azzurra, poi di nuovo riposo,  occhi chiusi e silenzio, silenzio, silenzio. Silenzio. Fino a quando.. Arrivano alla spicciolata. Prima una donna con due bambine, poi alte due donne,  con quattro figlie al seguito, poi un uomo, il marito di una delle donne, poi  un’altra donna, con una bambina piccola. Sono tutte femmine, santiddio, tranne  tre mariti e un adolescente maschio. Sono tutti una grande, immensa e  rumorosissima famiglia. E sono tutti napoletani. Chiassosi, iniziano a fare  tuffi nonostante un cartello, all’ingresso della piscina, reciti a caratteri  cubitali “VIETATO TUFFARSI”. Seminano roba ovunque, camminano urlando, invadono  letteralmente tutto lo spiazzo attorno alla piscina. Mio marito ed io, per  quanto siamo immobili e silenziosi, imbozzolati nel nostro fagottino di libri e  giornali, potremmo sembrare austroungarici. Per non far capire loro che siamo  conterranei parliamo tra noi a bassa voce, ci comprendiamo con lo sguardo,  restiamo in disparte, smadonnando in silenzio. Mi preparo ad assistere alla  scena che so che, prima o poi, arriverà. Parlano del fatto che hanno dovuto  lasciare la stanza e che adesso non sanno dove lavarsi dopo il bagno in piscina.  Le mamme cercano di impedire alle figlie di bagnare le lunghe chiome, ma con 45  gradi all’ombra le bambine ovviamente non riconoscono l’autorità materna. E i  padri le lasciano libere di surclassare le madri. Così, in poco più di cinque  minuti, tutti quei capelli fluenti sono fradici di acqua, per di più, zeppi di  cloro, come i loro corpi. Iniziano a confabulare tra loro. Lo so, lo so che  arriveranno a quello, lo so. Dico a mio marito “lo faranno”. Lui, che ha già  capito, mi risponde “no, non è possibile”. Ed io “vedrai che lo faranno”. È una  scena già vista milioni di volte, mi ci giocherei la mano destra e quella  sinistra assieme, senza rischiarne la perdita e l’assenza di scrittura per una  vita. E infatti, passano pochi minuti e una delle donne dice alla sorella “sta  nella borsa, vedi, lo shampoo e ci sta pure il bagnoschiuma”. Ecco, lo  sapevo. Mi giro verso mio marito e gli dico, da sotto agli occhiali da sole: “visto?”. Non sono felice di aver vinto. Per niente. Li osservo facendo finta  di leggere mentre camminano sul bordo piscina insapondandosi le pance pelose e i  lunghi capelli. Fanno a turno per sciacquarsi sotto la doccia. Chiassosi e  festanti perché sanno di farla in barba al regolamento, che a volte sembra  essere il principale sport di alcuni napoletani in vacanza. Li guardo  sott’occhi, con sguardo sostenuto nascosto dal libro. Spesso, quando sei in  presenza di altri napoletani, l’unica è camuffarti e fare lo straniero. Solo che  quello è il tuo modo di essere, non è finzione. E loro se ne accorgono. E un po’ si sentono a disagio, a volte. Ma cazzo, lo shampoo e il bagnoschiuma nella  doccia di una piscina di un albergo non si possono sostenere. È il cliché di  quelli che Napoli la violentano. E che fa pensare, ai generalizzatori, che i  napoletani siano quella roba lì. I napoletani non sono tutti quella roba lì,  invece. Lo shampoo e la doccia, mio marito ed io, ce li facciamo a casa, dopo  due ore di macchina sotto il sole caliente. In piscina mi sciacquo solo, per  lavare via il cloro da dosso. A sera, fresca di doccia, ripenso alla  receptionist Chiara. Non aveva le sue cose, era solo reduce da due giorni di  cliché. Che a volte si dimostrano orribilmente veri, purtroppo.
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