ilariapuglia

mai più dietro un pilastro

Archivio per la categoria “La posta dell’Octo”

Acqua.

Ciao, Octo. Fuori c’è un bel sole, il cielo è limpido, eppure non mi va proprio di uscire. Ultimamente passo un sacco di tempo in casa. Ho letto da qualche parte che puoi lasciar fuori la vita, basta che non le apri la porta, e allora me ne sto qua a guardare il soffitto. Oppure vado su e giù, prendo le misure. Sposto oggetti e mobili per sentirmi a casa e il risultato è sempre lo stesso, c’è sempre qualcosa fuori posto. Come se mi scappasse qualcosa dalle mani. Come se mi scivolasse via l’acqua tra le dita. Tipo come quando riempi il bicchiere più bello che hai, quello colorato di blu che ti piace tanto, stilettato e fragile, lo riempi fino all’orlo e poi trabocca tutto e, mentre prendi il panno per asciugare il fradiciume, ti scappa il gomito e lo rovesci. E così, resti senz’acqua da bere, solo la seccatura di dover ripulire il danno. Ecco. E’ così che mi sento. Dovrei imparare a tenere a freno la lingua. Impararlo davvero, una volta per tutte, intendo. Magari resterebbe un po’ d’acqua nel bicchiere, magari riuscirei a bere e passerebbe tutta questa sete. O, magari, semplicemente non mi sentirei così inutilmente bagnata. E riuscirei ad ascoltare la voce dell’acqua sulle pietre. Quella che mi manca tanto. Il torrente in piena. La cascata. Ho voglia di bere un po’ di pioggia, appena inizierà.

Due.

Sempre dalla nuova rubrica, La posta dell’Octo. Voi scrivete (a ilpuglia@libero.it), poi io elaboro e pubblico, in forma anonima, come fosse un flusso di coscienza. Si indica solo il genere: questo, per esempio, è uomo.

Sono in casa da solo. E mi godo questi attimi di solitudine come fossero aria. Come se finora fossi stato sott’acqua. Come se il silenzio di questa casa, adesso, mi asciugasse e riscaldasse. Come se avessi un grande phon puntato dritto sui vestiti o mi fossi steso su un’asciugatrice a seccarmi le ossa. Mi sento convalescente, nel corpo e nello spirito (bé, nel corpo sono convalescente davvero, al di là delle metafore), perché è un periodo un po’ “strambo”, come direbbe qualcuno che conosco, catartico come viene da dire a me. Ché per essermi innalzato a paladino dei “poveri”, a difesa dei miei diritti e dei diritti di altri (da perfetto idealista quale sono), sono stato marchiato come la “pecora nera”. Perché semplicemente non faccio quello che gli altri fanno a testa bassa, cioè caricare l’indifferenza della vita come dei tori, ma senza scatenarsi, ché si fa troppa fatica a scatenarsi davvero, ormai svuotati delle loro coscienze, delle loro personalità, della loro anima. E allora eccomi qui, autosospeso, quasi come fossi in un limbo (forse sono ancora sott’acqua?), in attesa di momenti migliori ma anche di poter finalmente chiarire la situazione davanti alle persone competenti, ai giudici che mi giudicheranno, quelli che mi diranno che, sì, ho ragione. Ma che potrebbero anche dire che, in qualche modo, il mio comportamento ha creato problemi al “sistema”. La possibilità che ciò accada c’è, eccome se c’è. Il sistema è sempre più forte di tutto il resto, anche quando ti giurano e spergiurano che un sistema di massimi sistemi non esiste. Ché poi, in ogni caso, non temo neanche tanto per me ma, se dovesse passare la tesi di chi ha scritto il mio nome in rosso dal lato della lavagna riservato ai cattivi, sarebbe una sconfitta per tanti, tantissimi, troppi. Gli stessi tantissimi che ora mi sono solidali, e che poi, la mattina, abbassano le loro teste e vanno sorridenti verso un’altra giornata di umiliazioni, prevaricazioni, prepotenze e disconoscimento dei propri diritti, perché, semplicemente, “non si fa”. Io proprio non ci riesco, mi dispiace (ma forse no), e chest’è, come direbbe un’altra mia conoscenza non ancora conosciuta. E allora fanculo, ora e per sempre, a tutti quelli che mi vorrebbero diverso, più accondiscendente, più morbido, più diplomatico, più “umano”. Non sarò mai così, cazzo, perché questo è un uomo. Lo volete capire o no?

Uno.

Oggi si inaugura una nuova rubrica, La posta dell’Octo. Voi scrivete (a ilpuglia@libero.it), poi io elaboro e pubblico, in forma anonima, come fosse un flusso di coscienza. Si indica solo il genere: questa, per esempio, è donna.

Vorrei scrivermi una lettera. Indirizzata a me. Ciao, J.. Arrivare a casa ed aprire la cassetta con le chiavi cercate affannosamente nella borsa sempre piena e sorprendermi di fronte all’intestazione di una busta bianca scritta con la penna a pennarello blu: “Ciao, J.”. Ed io che davanti all’ascensore apro la busta mentre mi tiro dietro le buste della spesa e cerco di non inciampare nella sciarpa. Ho bisogno di parlare con me stessa, capire, prendere tempo. Sedermi al tavolo della cucina a leggere la mia lettera per me, come se avessi invitato un’estranea a prendere un caffè. A volte mi ritrovo sommersa da cose che non capisco, ed allora mi manca l’aria e mi viene meno la voglia di lottare. Mi sento sconfitta. Quando il tuo nemico è identificabile con te stessa capita che provi una dolorosa sensazione di completa impotenza. Capisci che, dovunque andrai, per quanto ti sbatterai o punterai i piedi fermi a terra, non potrai mai tornare indietro né fare davvero ciò che avresti voluto. Ho una vita piena di desideri irrealizzati e non so se sia meglio questa piuttosto che una vita senza desideri, né onde, né sconvolgimenti, né brividi, né mete, né follie. Non sono mai riuscita a prendermi sul serio. C’è davvero qualcosa che abbia mai saputo fare nella mia vita? Troppo severa o troppo buona con me stessa per paura di non riuscire a perdonarmi, non mi perdono per aver buttato via una vita senza realizzare niente di ciò che volevo, nonostante mi sia sempre detta che di vita ce n’è una sola. Continuo a stare qui a guardare gli altri che vivono, sbagliano, lottano, mentre disegno una cornice a tutto questo. Sono io la cornice, senza vita, dipinta su una crosta che è dipinta come la mia vita. Oggi mi sento una bambina indifesa che vorrebbe potersi gettare tra le braccia del suo papà per essere protetta e guidata,soltanto amata. Vivo perchè respiro e invecchio, solo questo: magra consolazione per chi aveva grandi sogni, primo fra tutti quello di non avere rimpianti. Oggi non so nemmeno chi sono e forse non mi girerei neppure, se mi chiamassero con il mio nome mentre cammino sbiadita per strada. E’ tutta la vita che mi chiedo come possa meritare di essere felice se non merito di vivere ed è tutta la vita che cerco di essere infelice perchè credo di non meritare altro. Brevi momenti, piccoli istanti di felicità rubati ad una vita che non mi appartiene, come una bimba che entra in uno di quei negozi dei cartoni animati, quelli con il bancone pieno di caramelle, vede tutti i bonbon colorati e morbidi e non sa resistere anche se sa che è sbagliato prendere qualcosa che non le appartiene. Ho sempre detto che tutto va come deve andare. Mi sono ripetuta tante volte qual è il mio compito su questa terra, eppure ho voluto ignorarlo ancora una volta, ho voluto provare la gioia di innamorarmi e sperare in un futuro. Ora devo richiudere la porta e tornare da dove sono venuta, nel mio piccolo giardino segreto, nel mio mondo finto e finito. Mi sento disorientata e confusa. Poi, piano piano, tutto torna come sempre. La mia coscienza prende il sopravvento e la felicità si allontana. Avrei voluto un’altra vita, avrei voluto poter essere chiunque altro, non soltanto me stessa, quella che sarò per tutta la vita.

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