ilariapuglia

mai più dietro un pilastro

Io odio i taccagni. Pezzente, vieni qua che te lo offro io il caffè

Io odio i taccagni, gli avari e gli spilorci. Quelli che li riconosci subito. Li incontri per strada e devono darti 5,00 euro ma, guarda un po’, hanno sempre dimenticato il portafogli. Vabbè, dai, ce l’avrai in macchina, ti aspetto. Sì, ma la macchina è sempre dall’elettrauto o a casa della zia, o del cugino, che abita a Pordenone, e lui si è scordato di riprendere il portafogli prima di partire lasciando lì la macchina. Normale, no?
Io odio i taccagni, gli avari e gli spilorci. Quelli che nella pausa pranzo dicono: “Ci prendiamo un caffè?”. E quelli, come no, certo, andiamo. E li vedi che cercano di starti sempre dietro, non ti sorpassano mai, perché il loro obiettivo è che arrivi alla cassa prima tu. E quando impari a conoscerli, e arrivi alla cassa per primo, e fai finta di cercare il portafogli nella borsa, per vedere che fanno, loro ti guardano smarriti. Non fanno il gesto che chiunque si aspetterebbe e cioè prenderlo loro, il portafogli, e offrirti il caffè mentre ti vedono affannato che cerchi il tuo. No. Loro ti guardano beati e dicono candidi: “Mi dispiace, te lo offrirei io, ma proprio stamattina sono uscito senza soldi”. E allora che mi hai invitato a fare a prendere un caffè? Eh?
Io odio i taccagni, gli avari e gli spilorci perché sono attaccati agli spiccioli perché gli spiccioli compongono la loro vita. Credono di valere tanto quanto hanno in tasca, e quindi più hanno e più vogliono accumulare. Per esistere, perché senza denaro sono nulla. E accumulano sottraendo, sentendosi in pace col mondo se riescono a scroccare un caffè. Ogni volta esultano pensando a quanto sono stati bravi a farla franca. Ma vieni, che te lo pago io, il caffè, pezzente, che me lo devo ricordare ogni giorno che come te non sarò mai.
Io odio i taccagni, gli avari e gli spilorci perché cercano sempre di mettertelo a quel servizio, perché non sanno campare, né godersi il piacere delle piccole cose, impegnati come sono a tentare di fregarti. Poi finisce che perdono cinque euro e rischiano il ricovero coatto per l’impazzimento precoce.
Io odio i taccagni, gli avari e gli spilorci perché quando ti devono dei soldi hanno sempre il centone, che non hanno ancora cambiato. Così ho imparato a girare sempre col resto del centone, quando devo riscuotere dei soldi: vieni qua, bello, ti cambio io.
Io odio i taccagni, gli avari e gli spilorci perché sono come i topi: si nascondono, camminano sotto i muri, dentro le saettelle, spuntano solo quando possono scroccarti la vita e il sangue. Sono sempre alla ricerca del buffet della vita. Solo che, impegnati come sono ad accaparrarsi le scorte finiscono sempre per prendere la seconda scelta: che pietà.

(da http://www.paralleloquarantuno.it)

Napoli ad agosto accoglie i turisti chiudendo le stazioni dell’Arte

Napoli: dove tutte le bellezze artistiche e culturali sono valorizzate in pieno. Un teorema lapalissiano, no? Lo sanno tutti. E, infatti, abbiamo la stazione della Metro più bella d’Europa, quella di Toledo, e che facciamo? Organizziamo visite guidate, la pubblicizziamo ben benino, ma non la segnaliamo con cartelli stradali e, soprattutto, la chiudiamo ai turisti. Sì, avete capito bene: la chiudiamo ai turisti. 01_fermata_toledo_Napoli_672-458_resizePer tutto il mese di agosto, infatti, le visite guidate alla stazione Toledo, e in generale a tutte le stazioni dell’Arte, saranno sospese, per riprendere il 3 settembre. Non solo: la navetta Dante-Università resterà del tutto chiusa per ferie fino alla ripresa, il 2 settembre, e saranno temporaneamente chiuse anche le seconde uscite Montedonzelli e Rione Alto. Voi, poveri cristi, che a Napoli abitate e lavorate, perdete ogni speranza e fatevela a piedi. La metro, un servizio pubblico, che dunque dovrebbe essere garantito a tutti anche il giorno di Ferragosto, chiude. Proprio quando la città dovrebbe fare il pienone di turisti. Chiude per ferie data “la ridotta affluenza”. Una vergogna tutta napoletana a cui siamo ormai abituati. Un’abitudine malsana e da estirpare. Perché noi cittadini napoletani dovremmo ricordarci che abbiamo una serie di diritti che vengono calpestati ogni giorno, tra questi, quello forse più importante: il diritto alla mobilità. Non è che mi lasci a piedi così. Almeno abbi la decenza di non fare del turismo la tua bandiera se non sei in grado di offrire altro che il Lungomare. Come pretendi che l’affluenza aumenti se mi chiudi anche le stazioni dell’arte della Metro?

(da http://www.paralleloquarantuno.it)

Lasciamo la macchina del fango in garage, per non prendere multe…

Ma quante macchine del fango circolano in Italia, specie a Napoli? Potremmo chiedere al ministero dei Trasporti di fare una bella indagine, o alla Motorizzazione, perché negli ultimi tempi sta prendendo piede un curioso fenomeno: alle prime accuse o indagini che riguardano un politico, che sia piccolo, medio o grande, subito scatta la difesa con la chiamata in causa della macchina del fango.tommasielliL’ultima a invocarla come colpevole di aver leso il suo prestigio e il suo onore è l’assessore (o ex assessore, perché non si è capito bene se è dimissionaria, se le sue dimissioni sono state accettate o se è ancora in carica) Giuseppina Tommasielli, finita sotto inchiesta per una vicenda di multe che riguardano il cognato, magistrato e sindaco di Villaricca, comune della provincia di Napoli.
L’assessore (o ex assessore? Che qualcuno risponda, prima che questa domanda diventi il tormentone dell’estate come certe pessime canzoni da spiaggia) parla di schiena dritta e mani pulite (paragone che la schiena la presta eccome, ahimè), dice che i soliti poteri che tramano nell’ombra – ora va di moda chiamarle lobby – hanno congiurato contro di lei. Ma la verità verrà fuori, il fango tornerà addosso a chi l’ha gettato e bla bla bla… cose di questo genere. Per dire questo l’assessore (o ex assessore? È peggio del prurito, facciamocene una ragione) ha convocato una conferenza stampa. Sta bene. Una domanda però alla Tommasielli va fatta. La Procura di Napoli, nel caso specifico, contesta il fatto che sarebbero state annullate sette multe – del valore ciascuna di circa 90 euro – ai familiari della Tommasielli. Dall’assessorato allo Sport. Insomma, che fine hanno fatto quelle multe? Sono state regolarmente pagate? Non sono state pagate? La Procura ha preso un abbaglio? Perché se sono state rimosse dall’assessorato allo Sport non c’è tanto da menarla per le lunghe. Sì, lo sappiamo, così fan tutti, il mondo va avanti così da anni, è stato così con la sinistra e con la destra, anche col centro, figuriamoci con l’arancione. Ma si tratta di una tale squallida inezia che basterebbe chiedere scusa: scomodare la macchina del fango e le ombre lunghe della notte pare davvero un’offesa all’intelligenza. Che poi di ombre a Napoli ne abbiamo già troppe, da quando abbiamo tinto i muri di arancione. Insomma, cara signora Tommasielli, intervenga nel merito e lasci in garage la macchina del fango. Con questo vortice di multe in giro c’è poco da scherzare, sa? Ora l’ultima parola spetta al sindaco de Magistris. Tranquilli: sarà la nostra schiena a spezzarsi, a colpi di tweet…

(da http://www.paralleloquarantuno.it)

La lettera (devastante) del Pd di Caivano alla Forestale. Caro Pd, ma finora dov’eri?

Parla dell’attività investigativa svolta dalla Forestale “alla ricerca dei terreni inquinati” definendola “tardiva”, anche se ringrazia che sia finalmente iniziata, ritenendola “giusta” e “importante”. E poi chiede cosa debba fare. È questo il succo della lettera aperta che il Partito Democratico di Caivano – a firma del coordinatore cittadino Iuri Bervicato – rivolge al generale Costa, comandante provinciale del Corpo Forestale della provincia di Napoli.foto (1)Una lettera che trovo surreale, grottesca, anche un po’ ironica, se non fosse che è seria. Già, perché, dopo il sindaco di Caivano, anche il Pd del comune della Terra dei fuochi martoriato da vent’anni dall’inquinamento, sembra scoprire dalla sera alla mattina, grazie al lavoro di uomini e donne della Forestale e alle notizie date dai media, che alcune delle sue terre sono avvelenate, che la salute dei suoi cittadini è in pericolo e che, per vent’anni, evidentemente, ha vissuto sulla luna se solo oggi si domanda cosa fare. Peggio, lo domanda alla Forestale. Non al governo, non alla direzione nazionale del partito, non a tutti i comuni firmatari del Patto, non alla Prefettura, neppure alla Regione, no, lo domanda al comandante provinciale del Corpo Forestale di Napoli, quello che va per le terre a scoprire i veleni, insomma, nonostante le centinaia di segnalazioni che, nel corso degli anni, le associazioni di volontari operanti sul territorio rivolgono ai comuni. E già, ma tardiva è l’opera investigativa di Costa, non la sua domanda. Si fa così, in politica, no? Il sindaco di Caivano, massima autorità sanitaria del Comune chiede di dirgli cosa debba fare. Il Pd di Caivano chiede di dirgli cosa debba fare: ma qualcuno con un minimo di intraprendenza, in questa terra disgraziata abbandonata da Dio e da (quasi tutti) gli uomini, esiste o no?
Ma c’è di più. A leggere la lettera sembra quasi che la preoccupazione più grande non sia tanto il veleno nel sottosuolo, nell’acqua e nell’aria, ma la necessità di fornire risposte dopo che si danno “informazioni così devastanti” (cito testualmente). È l’informazione il problema, insomma. C’è il veleno mutageno e teratogeno nel pozzo? Non va bene, certo, ma non urliamolo ai quattro venti, che gli agricoltori si prendono collera (e le minacce a don Maurizio lo dimostrano) e la gente non compra i prodotti dell’area “incriminata”, e l’economia della regione va in frantumi. Non urliamolo ai quattro venti, che sennò c’è necessità di dare delle risposte. E finora? Mentre la mamma di Mesia comprava le verdurine fresche per il brodino della sua bambina, morta di neuroblastoma surrenale a 4 anni, dov’era il Pd? Mentre urlavano tutti i volontari, che il pericolo esisteva ed era reale, dov’era il Pd? Come ci sarebbero mai arrivati i ministri De Girolamo e Orlando, in questa terra, senza l’informazione reale e “devastante”? E’ più devastante pensare che in un pozzo sia stato trovato il veleno che fa nascere i mostri o urlarlo ai quattro venti? Questa è LA domanda.
Nessuno ha mai scritto o detto che l’intero territorio di Caivano o della Campania nella provincie di Napoli e Caserta sia inquinato. Nessuno. Ma che si debbano fare dei sacrosanti controlli sì. E sono quelli che sta facendo la Forestale, risalendo la falda acquifera e chiarendo, tra l’altro, ad ogni intervista, che la falda si divide in superficiale e profonda, e che non è detto che se in un campo si trovi del veleno mortale anche il campo affianco sia inquinato: si va sul posto, si fanno i prelievi e si controlla. È così che funziona.
Cosa fare, si chiede il Pd: impedire la coltivazione dei terreni non ancora controllati? No, ma spingere a che vengano controllati tutti sì, impedire la violazione delle ordinanze di sequestro pure. Impedire che in terreni dove vige un’ordinanza COMUNALE di divieto di semina, raccolta e irrigazione vengano coltivati pomodori sì, soprattutto, assolutamente, ora, subito.
Ma forse al Pd dà noia che le notizie arrivino dai social network, come scritto tra le righe (e neppure tanto) della lettera. Da quei solerti cittadini che informano quotidianamente la popolazione, e da cui spesso anche noi giornalisti attingiamo, perché sono le uniche sentinelle sul territorio, a parte la Forestale e gli uomini dell’Arpac, perché sono gli unici a diffondere prontamente le notizie di roghi, ritrovamenti, sequestri e a denunciare chi viola le ordinanze. Perché il Pd invece di chiedere a Costa perché le notizie vengono dai social non scrive al ministro De Girolamo? Perché non chiede che l’Arpac diffonda e renda noti pubblicamente i dati dei rilevamenti nei pozzi e nei terreni? Perché non chiede a gran voce che sia rispettato il diritto di tutti di sapere?
Si chiede, il Pd, cosa dire agli agricoltori, quelli non ancora controllati, e quelli in regola. Di denunciare, ecco cosa deve consigliargli di fare, di effettuare i controlli, perché anche gli agricoltori sono stati conniventi per anni ed è ora per tutti di dire basta, perché quando si scoprono dei veleni in una terra non si dichiara la morte civile di quella terra ma c’è il dovere da parte di tutti di farla rinascere. La nostra terra, di tutti. Chiede cosa dire al mercato edilizio, che non riesce a vendere le case in un territorio le cui quotazioni sono ovviamente al ribasso a causa dell’inquinamento. E dov’era il Pd negli ultimi trent’anni di devastazione abusiva di cui ancora sono visibili le tracce? Dov’era quando le ditte conniventi con la camorra si arricchivano?
Il Pd di Caivano chiede a Costa di intercedere “con la sua autorevolezza presso tutti gli Enti” per far continuare l’attività investigativa nel profondo. Bene, io mi domando: ma qual è la forza del Pd? È Costa che deve intercedere presso gli enti? Ma il dovere di Costa, l’unico, non è quello di rispettare il Corpo Forestale, di cui fa parte, e svolgere semplicemente il suo dovere? Ma dov’è la politica?
Iuri Bervicato, coordinatore Pd di Caivano, firmatario della lettera a Costa, si chiede cosa deve fare al ritorno a casa dopo il lavoro, quando, “come ogni genitore troverò sulla tavola, nel piatto di mia figlia, un’insalata di pomodori o una mozzarella o una fetta di carne”? Bè, mi permetta, avrebbe dovuto chiederselo tanto tempo fa, mentre i bambini morivano, i cittadini di Caivano morivano, la gente della Terra dei fuochi si avvelenava per colpe non sue. Adesso è un po’ tardi per farsi domande, e soprattutto per farle a chi deve solo svolgere attività investigativa. Adesso è l’ora di fare tutti qualcosa, ognuno nel suo ruolo. Fare politica è il suo.
E Bervicato, in un altro documento, ci tiene a mostrare solidarietà a padre Maurizio Patriciello, a nome del Pd di Caivano: “Il tempo è oramai scaduto, non si può fare finta di non vedere o di non sapere: il disastro ambientale non è più un’ipotesi, è un fatto, e questo anche quei contadini devono saperlo e devono affrontarlo con coraggio e determinazione”. Allora mi chiedo, se non si può più far finta di non sapere o non vedere, qual è la devastazione provocata dalle notizie? L’interlocutore da scegliere non è Costa. Incatenatevi davanti al Comune, o davanti alla Regione, o davanti alla Provincia, o ai ministeri preposti. Così renderete davvero un servizio per la cittadinanza. Questa lettera è soltanto una resa. Anche un po’ patetica.

PD1

PD2

PD3

PD SOLIDARIETA'

(da http://www.paralleloquarantuno.it)

La nostra terra avvelenata da fantasmi al servizio delle aziende del Nord

Un territorio martoriato da piccoli fantasmi alle dipendenza di grandi uomini neri. La faccenda potrebbe essere interamente così. Già, perché i volontari del Coordinamento Comitati Fuochi hanno svolto una vera e propria attività investigativa, trasformandosi in sentinelle dell’ambiente, e hanno scoperto che in una delle discariche della zona di Orta di Atella, in località San Pancrazio, tra i rifiuti scaricati nei campi ci sono anche pellami, tomaie e residui della lavorazione delle scarpe. fotoLe pelli ritrovate sono originali e di buona fattura, segno che non può trattarsi di residui del mercato del falso, che si avvale in genere di prodotti di bassa qualità, ma di produzione di alto livello.
Indagando indagando, i volontari hanno “interrogato” alcune operaie al nero che nelle loro case confezionano scarpe: chi lavora alla tomaia, chi alla cucitura della pelle, ciascuna si occupa di una parte del prodotto. Ogni settimana, il lavoro di queste operaie viene consegnato a una fabbrica clandestina della zona che assembla i vari pezzi e manda tutto alle aziende del nord, a fabbriche di grosse dimensioni, ai grandi nomi del mercato calzaturiero. Gli scarti di questa lavorazione fatta in casa e tutta al nero – pelli, tomaie e altri residui – viene poi scaricata nei terreni della provincia di Napoli. lavoratori fantasmi che producono prodotti reali e, soprattutto, rifiuti reali, ma che, producendoli da fantasmi, non possono smaltirli per le vie ufficiali ma illegalmente.
“Insomma, esiste un mercato parallelo nella lavorazione di scarpe che non solo evade le tasse, ma è completamente abusivo e paga salari da fame alle operaie che lavorano in casa – spiega Enzo Tosti, del Laboratorio di idee Massimo Stanzione, associazione aderente al Coordinamento comitato fuochi – ma che contribuisce agli smaltimenti illegali”.
Come fare a bloccare questo scempio autorizzato dalle grandi aziende? La trafila illegale nella lavorazione delle scarpe sarà segnalata al prefetto di Napoli dallo stesso Coordinamento. C’è solo da augurarsi che la Prefettura ascolti i volontari e indaghi, c’è solo da augurarsi che le piccole aziende a nero vengano fermate, c’è solo da augurarsi che il governo faccia finalmente delle leggi decenti sulla tracciabilità della produzione industriale e contro l’evasione fiscale che ammazza i lavoratori onesti e distrugge la nostra terra.
Già. Niente di più facile, no?

(da http://www.paralleloquarantuno.it)

Dobbiamo far brillare questa bomba chiamata veleno

Quello che colpisce è sempre la campagna: quanto è smisurata e apparentemente bella, quanta ricchezza potrebbe produrre, quanti prodotti sani con cui crescere i nostri figli. Poi ti ricordi perché sei qui e ti viene lo sconforto. Sei qui per vedere qual è il campo già pronto per la semina sequestrato per inquinamento, circa 5mila ettari in cui, con ogni probabilità, saranno coltivati ortaggi di stagione, come le melanzane che ti piace tanto arrostire e marinare.foto Sei qui perché in quel campo hanno trovato un veleno che crea mostri: il cloruro di metilene o bicloro di metano. Una sostanza impronunciabile, velenosissima, che crea malformazioni ai feti nell’utero, modificazioni del codice genetico, mostri. Patologie che, insomma, non si scrollano certo di dosso con una lavanda gastrica. E ti ricordi che da settimane non mangi più né frutta né verdura, e che ti interroghi anche quando bevi l’acqua imbottigliata e quando addenti una fetta di carne, o la pasta, viste le distese sconfinate di grano che attraversi nel viaggio nella Terra dei fuochi.
E infatti sei in quello che era definito, un tempo, Triangolo della morte, l’area di Acerra-Nola-Marigliano, che però si è espansa come un mostro tentacolare e adesso arriva a Caivano, Orta di Atella, Succivo, Crispano, Cardito, Afragola, Giugliano e Frattaminore. Perché Caivano confina con Acerra e qui i comuni sono talmente attaccati che una strada può far capo a due comuni diversi a seconda del marciapiede. A noi napoletani, spesso, la provincia sembra distante più della luna, ma è a soli 15 minuti dal Vomero se c’è traffico, altrimenti ne bastano 10.
Qui la Forestale ha fatto i prelievi sull’acqua del pozzo, l’Arpac l’ha analizzata, in due giorni ha consegnato i risultati, la Procura della Repubblica ha appoggiato in pieno tutta l’operazione e la solerzia del magistrato ha fatto il resto: così, il terreno è stato sequestrato. Quando la rete funziona sembra quasi di essere meno soli nella guerra.
Lasciamo la statale e ci addentriamo nelle campagne. Chilometri di coltivazioni in mezzo al nulla. Devi fare mille giri per arrivarci. Tutto intorno casali abbandonati, di quando l’agricoltura era veramente agricoltura. Perché adesso non è più così. Adesso entri nella campagna e pensi all’avvelenamento. E mi dispiace se ci sono un sacco di lavoratori onesti e un sacco di persone che coltivano i campi e neppure sanno cosa rischiano mangiando quella roba o bevendo quell’acqua, mi dispiace se oltre al delirio della follia e della malvagità ci sia tanta ignoranza. Io, se penso alla campagna, penso al veleno.
È un avvelenamento lento, subdolo. Nostri concittadini, nostri corregionali (a tutti i livelli) sversano nelle campagne veleni di ogni tipo, sostanze tossiche con cui ammazzano i propri figli e anche noi, che preferiremmo vivere bene e a lungo e vedere i nostri bambini invecchiare, piuttosto che doverci chiedere ogni giorno da dove proviene la frutta che mangiamo.
E dalla nostra parte chi c’è? Uomini e donne incantevoli. Quelli della Forestale, per esempio, che nell’immaginario collettivo un tempo erano quelli deputati a spegnere incendi, e che adesso difendono la nostra terra dai rifiuti tossici e dai roghi. Sono capitanati da Sergio Costa, uno che è stato capace di stare “sul pezzo”, sull’emergenza, di estrema attualità e non ottusamente legato al passato come tanti altri. Un uomo nuovo. Ci sono anche donne nella squadra, e nei loro occhi fieri vedi quanto amano il proprio lavoro e nelle loro poche parole vedi quanto sono professionali i servitori dello Stato che davvero lottano insieme a noi.
Seguono la falda acquifera di pozzo in pozzo per arrivare a monte e individuare il fattore inquinante. Per capire se c’è qualcosa che si può bonificare. Sono solo 70 uomini per tutta la provincia di Napoli, per tutti i comuni toccati dai fuochi. In tutto, in Italia, il corpo forestale è composto da 8700 uomini. E non fanno certo solo sequestri, perché le loro competenze vanno dalla pubblica sicurezza alla polizia ambientale e forestale, dalla sorveglianza dei parchi nazionali alla protezione civile e al pubblico soccorso. Fanno tutto questo solo 70 persone in tutta la provincia di Napoli. Solo 70 agenti che devono combattere anche un’altra battaglia, quella contro una legge che non fa quello che dovrebbe fare. Quando pure la Forestale arriva, sequestra e ferma le coltivazioni avvelenate, che succede? Grazie alle pieghe del codice, anch’esse malate, si prendono beffa della collettività un’altra volta, e tornano liberi subito. Basti pensare che non esiste il reato di rogo di rifiuti, esiste solo il divieto di appiccare un rogo. Insomma, foglie o amianto, per la legge italiana non fa alcuna differenza. E l’ottimo lavoro della Forestale va bruciato come legna secca. Ma questi criminali devono pagare, in qualche modo. Devono avere paura della pena e di chi gliela farà scontare fino alla fine. Devono essere terrorizzati dalle possibili conseguenze del loro gesto. Perché sversare rifiuti tossici in aperta campagna vuol dire uccidere e allora va equiparato all’omicidio. Perché bruciare amianto e veleni dovunque in Campania soffoca e fa marcire le persone, e va punito con l’ergastolo.
Non solo. È tutto storto il sistema di punizione. Perché i soldi delle multe pagate dai criminali vanno nelle casse dello Stato indistintamente. E invece, con i soldi delle multe che pagano questi avvelenatori coscienti si potrebbe assumere nuovo personale per stanare i disgraziati che ci avvelenano. O, come propone Costa, foraggiare un unico fondo, vincolato alle bonifiche, e con un osservatorio della popolazione a controllare che esse vengano davvero fatte. Perché c’è bisogno della collaborazione di tutti, perché non sempre le istituzioni sono dalla parte dei cittadini.
E allora pensi che non si potrà mai presidiare il territorio, che i controlli finiranno con i figli dei nostri figli, se pure andranno avanti fino ad allora. Pensi che non ce la faremo mai. Poi guardi le schiene dritte degli uomini e delle donne della Forestale e pensi che no, che una speranza deve esserci e che se c’è passa per loro e per le associazioni di volontari che li aiutano fornendo informazioni puntuali e provate dei roghi, ad esempio, o dello sversamento di rifiuti. Anche i contadini adesso collaborano ma all’inizio – ci raccontano – erano scettici, non credevano che i loro terreni potessero nascondere simili atrocità.
Sia chiaro: il ritrovamento del cloruro in questo pozzo non vuol dire che tutta l’area circostante sia inquinata. La falda ha una parte in profondità e una in superficie, come quella di questo pozzo. Ma occorre risalirla tutta, andare a tappeto, con queste pochissime forze a disposizione. A combattere contro la camorra legalizzata, l’ignoranza e la disperazione.
Tutti i pozzi sequestrati finora dalla Forestale sono abusivi. Sono buchi nel terreno che potrebbe scavare chiunque. Nessuno di questi contadini ha fatto richiesta di autorizzazione alla Provincia, che, sui pozzi autorizzati, effettua i consueti controlli annuali. Qui no, o i contadini li fanno da soli i controlli, oppure, se arriva la Forestale, sono fregati. E dire che i controlli sulle acque non sono poi così costosi e che facendoli si eviterebbe almeno di incappare nel penale… Invece no, non lo fanno. Preferiscono berla quest’acqua. E morire.
E’ una guerra, una guerra, dove però il fronte non è unito ed è pieno di buchi: ci sono comuni che zittiscono le associazioni, ministri che ci accusano di avere stili di vita sbagliati, altre istituzioni che restano mute in attesa, forse, che la bomba si sgonfi. Ma ce l’abbiamo nel terreno, la bomba, la dobbiamo far brillare, per liberarcene. Ecco perché non bisogna lasciare andare neanche un giorno senza denunciare. Bisogna fare come la goccia d’acqua. Ma chi urla è acqua pura. È chi tace e nasconde e fa finta di niente che è acqua contaminata.

(da http://www.paralleloquarantuno.it)

“Caro ministro, ecco come la dieta mediterranea al veleno uccide i nostri figli”

Caro ministro De Girolamo, che tra due giorni sarà qui, nella Terra dei Fuochi, vorrei raccontarle una storia, anzi, tre. Da donna a donna, da mamma a mamma. Vorrei spiegarle come l’assenza di controlli sui prodotti agricoli (perché in Campania i controlli non sono affatto capillari come dovrebbero) uccide. Come le mancate bonifiche uccidono. Come la dieta mediterranea (al veleno), da lei lodata, fatta a Caivano, Acerra, Giugliano, Orta di Atella, Succivo, Marcianise, e via dicendo, uccide.fotoLe racconto la storia di Mesia, Francesco e Luca, 4, 8 e 19 anni. In genere i bambini e i ragazzi si descrivono per i tratti del viso o i giochi che amano di più, ma non stavolta. Stavolta glieli indico per quello che li ha portati alla morte: tumore, leucemia, inquinamento, Terra dei fuochi, follia.
I loro genitori sono strani, sa? Sono intontiti dal dolore. Hanno una ruga profonda sul viso e occhi spenti. In quegli occhi, per quanti sorrisi possano venire dai figli rimasti, i fratelli, e dalla vita che ricorda ogni giorno che bisogna andare avanti, ci sarà per sempre un velo di opacità. Mai più trasparenza, mai più innocenza cristallina. L’innocenza, in quei genitori, è morta. Con Mesia, Francesco e Luca.
Antonella e Pasquale sono i genitori di Francesco De Crescenzo. Anzi, erano, perché Francesco non c’è più. È morto a 8 anni per un osteosarcoma con metastasi polmonari. Parole che suonano ancora più violente se associate a un bambino, parole che quel bambino non poteva capire. E che invece hanno dovuto capire, in qualche modo, i suoi genitori.
Antonella e Pasquale hanno rispettivamente 36 e 40 anni, altre due figlie più grandi e la morte nel cuore. Abitano a Marcianise. Nella terra dove altre persone come loro hanno deciso di interrare rifiuti tossici, veleni e ogni porcheria che si possa immaginare. Francesco era un bimbo sorridente e gioioso, sa, uno di quelli vivacissimi che scendono le scale a due gradini alla volta perché sembra abbiano fretta di vivere.
Un giorno, a 6 anni e mezzo, Francesco si sveglia con un forte dolore alla gamba. I genitori, naturalmente, pensano subito a una botta, a uno strappo, perché il piccolo corre sempre, proprio non gli riesce di stare fermo. “Non avevamo idea”, dice Antonella. E come avrebbe potuto immaginare? Suona terribile anche solo a pensarla, una cosa simile. La pediatra quasi si infastidisce per tanta insistenza, da parte della mamma, a fargli fare una radiografia: “Disse che noi mamme siamo sempre troppo apprensive..”, racconta Antonella. E infatti gli prescrive una cura con una pomata e niente radiografia. Dopo 5 giorni, Francesco ancora si lamenta, non dorme più dal dolore. I genitori lo portano di nuovo dalla pediatra ma trovano la sua sostituta: la gamba di Francesco è gonfia e calda. “Ci disse di andare di corsa all’ospedale di Caserta – racconta Antonella – che avrebbe anche chiuso lo studio per accompagnarci, se volevamo”. A Caserta l’ortopedico lo capisce subito, appena vede l’orrore celato in quella gamba. Fanno finalmente la tanto desiderata radiografia e all’improvviso la dottoressa con la lastra in mano inizia a chiamare altri medici, tanti, nessuno parla. Tutti guardano la radiografia. Muti. L’ortopedico, alla fine, sentenzia: osteosarcoma con metastasi polmonari, il tumore più frequente in età pediatrica. Sa, ministro? Un’alta percentuale di casi di osteosarcoma si registra nelle aree altamente inquinate. “Era il 27 dicembre 2011 – continua Antonella – non dimenticherò mai quella data”. Francesco è morto per le metastasi, il 30 giugno scorso, dopo un anno e mezzo di calvario e 24 chemioterapie. A 700 metri da casa sua abita un’altra bambina malata. E non solo lei. Già, il caso. Colpisce sempre gli innocenti, il caso. Il medico del Pausillipon che li prende in cura durante la malattia di Francesco dice chiaramente ai genitori che la causa di questo orrore può essere l’inquinamento. “Francesco giocava e io preparavo la valigia per andare a fare le chemio – è questo il ricordo della mamma – Con lui non ho mai usato la parola ‘chemio’, la chiamavo solo ‘terapia’”. Per proteggerlo, come se potesse, Antonella. Aveva tanta voglia di vivere, Francesco: “Mica devo morire, mamma?” chiedeva a chi gli aveva dato la vita, come se solo lei potesse rispondere. Al papà, invece, chiedeva aiuto: “Papà, aiutami tu”, diceva. “E io mi sentivo un vigliacco impotente”, dice Pasquale. Ora Antonella e Pasquale sono rimasti con le loro due figlie e ogni volta che una delle due sta poco bene entrano in ansia. “Ultimamente mia figlia si lamentava per il mal di testa – racconta Antonella – le ho fatto fare la risonanza”. Pasquale non vuole andare via da Marcianise: “E perché devo andare via? Per fare spazio a chi ha ucciso mio figlio?”, domanda. E noi restiamo in silenzio.
In ospedale Francesco ha conosciuto Mesia Nasi, 4 anni, di Succivo. C’è una foto che li ritrae insieme mentre giocano sul lettino, senza capelli ma sorridenti. Imma, la mamma di Mesia, sembra una bambina. Ha occhiali dalla montatura sottile e occhi innocenti e puri: “Io la mia lotta l’ho persa – esordisce – vivo per proteggere l’altro mio figlio che ha 3 anni. Se non ci fosse stato lui io ora forse non sarei qua”. Quando ha 3 anni, nel 2012, Mesia inizia ad accusare un dolore nel fianco, tanto da chiedere di continuo al padre di portarla in ospedale perché si sente male. E così inizia il giro dei reparti e dei medici. Qualcuno le diagnostica un accumulo di feci: una massa di 12 centimetri sotto il rene liquidata come stitichezza. Ma il pediatra di famiglia si insospettisce e li manda all’ospedale di Caserta. Da lì al Pausillipon il passo è breve. La diagnosi è una rasoiata in faccia: neuroblastoma surrenale. Sa, ministro? Negli ultimi anni diversi casi di neuroblastoma si sono registrati in Puglia, nella zona di Margherita di Savoia, dov’è attiva un’azienda chimica.
Mesia viene operata, ma dopo due giorni il male ricompare, più forte di prima. La massa si riforma: 8 cm in due giorni. Un’aggressività mai vista: normalmente ci vogliono 5 mesi per raggiungere una dimensione simile. “Non ce l’aveva quando la portavo in grembo – si arrabbia Imma – In gravidanza sono stata seguita da un genetista perché abortivo. Mia figlia era sana”. Imma è molto attenta all’alimentazione della sua piccola, come tutte le mamme: brodino con verdure fresche, minestrone, lenticchie. Si fa comprare sempre sedano, carote e pomodori da sua mamma per il brodino vegetale. E adesso non si perdona. “Ci mandano a morire come gli ebrei ad Auschwitz – dice – Quello che vorrei dire, in piazza, è che quello che ha respirato mia figlia l’hanno respirato anche i loro bambini. Ho accompagnato mia figlia in chiesa per il suo funerale, ma avrei dovuto accompagnarla per la prima comunione, o per sposarsi! Quello che vorrei si capisse è che può capitare a tutti: il brodo lo danno tutti ai propri figli. Quella è una cellula che parte, basta pochissimo”. Mesia è morta a 4 anni, il 26 febbraio 2013.
E poi c’è Luca Lampitelli, 19 anni, di Orta di Atella. Quando incontriamo sua madre Angela (occhi azzurro mare e una dignità che solo gli sconfitti silenziosi hanno) crediamo di aver già sentito tutto ciò che le nostre orecchie e il nostro cuore di genitori può sopportare. E invece no, ci sbagliamo. Il calvario di Luca è durato più di 2 anni. Una storia in cui il Natale ricorre come un incubo: “Sono anni che non festeggiamo neanche più”, racconta Angela.
Inizia tutto quando Luca ha 16 anni: all’inizio di dicembre 2009 viene colpito da una febbre continua. Un ragazzo attivissimo, che non si ferma mai, grande tifoso del Milan. Al pronto soccorso di Frattamaggiore gli danno l’antibiotico, ma al terzo giorno Luca diventa verde: non ce la fa a camminare ed è sempre stanco. Lo trasportano d’urgenza al Cardarelli e lì gli diagnosticano la malattia: leucemia linfoblastica acuta, una patologia tra le cui cause c’è l’inquinamento. “Nel reparto vedevo tutti senza capelli e non capivo cosa mi aspettava – racconta Angela – Anche Luca si interrogava e le altre mamme mi abbracciavano e piangevano”. Le prime chemio iniziano alla vigilia di Natale. Luca risponde bene, non si abbatte, è lui a consolare sua madre. Passano le feste in ospedale. Ad Angela dicono che gli hanno applicato il protocollo dei bambini, più efficace, e che starà bene.
Ad agosto 2010 completano il primo ciclo della terapia, con le radio. Al controllo, a settembre, risulta tutto in ordine, ma a novembre entra di nuovo in terapia. Prima di allora i medici non hanno mai parlato della necessità di un trapianto. Quando gli chiedono dove preferisca farlo, Luca sceglie il San Martino di Genova perché gli amici conosciuti in ospedale gliene hanno parlato bene. Capisce, ministro? Luca gli amici se li era fatti in ospedale, tanto passava più tempo lì che altrove. A 17 anni. Il primo trapianto glielo fanno il 24 febbraio, grazie al fratello. Restano a Genova per 5 mesi, affittano persino una casa, Angela e sua figlia Giusy: “Mi è stata sempre vicino, si è persa un sacco di tappe della sua vita”, racconta sorridendo. Luca perde 11 kg per le normali conseguenze del trapianto.
Il secondo trapianto glielo fanno il 7 maggio 2012, stavolta la donatrice è la sorella. Il 7 dicembre 2013 torna da un controllo in ospedale e racconta che la dottoressa lo ha trovato bene. “Allora decidemmo finalmente di festeggiare il Natale – racconta Angela – gli dissi ‘Luca, che dici, vogliamo fare il presepe?’. Ma mentre scendeva in cantina a prendere l’occorrente arrivò la telefonata da Genova. Era l’11 dicembre. La dottoressa gli disse che la malattia era riapparsa”. Lui resta muto al telefono, poi prende le chiavi della macchina e esce, per rimanere solo. Riprende le chemio al Policlinico di Napoli il 20 dicembre. Poi il dramma. Il 29 inizia a non sentirsi bene. Ha i decimi di febbre, ma la notte la febbre sale a 40. La mattina dopo sviene: non cammina più, non si regge in piedi, la leucemia ha attaccato i muscoli. Riprende le chemio, mentre i medici controllano di continuo tutti i suoi organi, irrimediabilmente compromessi. La notte di Capodanno la passano così. “Io pensavo fosse come le altre volte – racconta Angela – ma mio figlio non reggeva neanche più il telefono in mano”.
Il 2 gennaio, Luca inizia ad avere problemi di respirazione. Prima lo attaccano all’ossigeno, poi lo portano in terapia intensiva. Il dottore dice che le cose “sono molto molto peggiorate”. Alle 11 del mattino i medici dicono ad Angela che sono stati costretti a sedarlo: “Non ci hanno neanche avvisati prima di farlo”, si commuove Angela. Trascorrono così dieci giorni. Luca ha tre arresti cardiaci, ma resiste. Vuole vivere a tutti i costi. Poi, il 12 gennaio 2013, non ce la fa più e muore. “Noi eravamo in ospedale, in sala d’attesa e loro chiamarono mio marito a casa per avvertirlo. Non ebbero neppure pietà di una povera mamma. Me lo fecero vedere su un tavolaccio della sala mortuaria”, piange Angela. La sorella di Luca si è laureata ieri: “Ma io non ci sono andata, lei ha detto che non aveva voglia di festeggiare, il fratello non c’è più”, racconta la mamma.
Nell’ospedale di Genova c’erano tante persone dalla Campania. “La dottoressa ci chiese che diavolo avessimo nel nostro territorio da determinare uno spostamento di massa simile”, racconta Angela. A novembre è morta un’amica di Luca, una ragazza che era entrata in ospedale poco prima di lui. “Luca mi disse che così come erano entrati in ospedale ne stavano uscendo, morti”.
Luca si era diplomato a pieni voti nonostante non avesse frequentato la scuola a causa della malattia. Voleva fare l’infermiere, dopo il diploma. Era diventato un esperto di medicinali, ormai. Ma non ne ha avuto il tempo: la dieta mediterranea (inquinata), e i veleni, e i composti chimici, e la sua terra lo hanno ucciso. “Mio marito non riesce a guardare le sue foto”, dice Angela.
Ecco, ministro, le guardi lei le foto di Francesco, Mesia e Luca. E non dimentichi mai più.

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Lucia, la donna di pietra e di fuoco

Ci sono donne combattenti, che non si arrendono mai, per le quali la lotta è una ragione di vita. E poi c’è Lucia De Cicco, la donna che a Giugliano conoscono anche le pietre, perché è dura come loro. “La vuoi la mascherina, Lucia?”, le chiedo appena scendiamo dalla macchina. VjM_1kspSuY0CmuCSD1wAgZ3gFsuxv2hCE6Sm83a5ooOggi ci accompagna lei nel giro nella Terra dei fuochi, a Giugliano. “E che me la metto a fare? Capirai..”. E ti rendi conto della cazzata che hai detto. Perché offrire una mascherina a una donna costretta a respirare quest’aria tutti i giorni è come offrire una caramella a un diabetico.
La conoscono tutti, tutti la chiamano per nome. Ha un passato importante, Lucia. Il 29 febbraio 2008 si è data fuoco davanti al sito di stoccaggio di Taverna del re. La polizia sosteneva che le pozze tutto intorno fossero acqua, lei impugnò un accendino per dimostrare che erano veleni. Quelli la provocarono dicendole che non l’avrebbe fatto, che l’accendino era scarico. Ma donne come Lucia basta poco a farle scattare. E infatti lo accese, e tutta l’area prese fuoco, compresa lei. La polizia si rivolse ai volontari dei comitati presenti dicendo di portarla in ospedale. Ma questo fu un affronto più grande dei rifiuti, della provocazione dell’accendino, delle discariche a cielo aperto. E Lucia rifiutò. Disse loro che non si sarebbe mossa di lì, che in ospedale ce la dovevano portare loro. E così andò. Al Cardarelli, dove pretese di essere portata, e non alla Schiana, dove le avevano proposto di medicarsi, rimase quindici giorni. All’inizio tentarono di isolarla dalla stampa, in modo da poter raccontare le loro false verità. Ma lei fu più forte. Oggi ce lo racconta quasi ridendo, minimizzando, come se darsi fuoco dopo essersi incatenata fosse come togliersi un sassolino dalla scarpa e non un atto di eroismo. Dopo, Lucia fece persino lo sciopero della fame.
29 febbraio 2008: da quel giorno l’emergenza rifiuti è arrivata all’attenzione generale. Ci è voluta una scintilla, quella di Lucia: “Abbiamo preso un sacco di mazzate”, racconta.
E non è neppure di questa terra, Lucia, ma di Fuorigrotta. Qui ci veniva al mare, al Lago Patria, quando aveva 6 anni, quando questo posto era la villeggiatura preferita di tante famiglie, dove si stava bene e si andava in bicicletta nei parchi privati. Al papà piaceva tanto questa zona, fu così che decise di vendere la casa di Fuorigrotta e la famiglia si trasferì qui. Era il 1992. Nel 2007, d’estate, si accorsero dalla puzza che qualcosa non andava. Era luglio, e loro erano costretti a cenare chiusi dentro casa per la puzza. “Non conoscevo il territorio, lo ammetto” – racconta quasi a volersi giustificare – “La puzza ci ha svegliati. Ci siamo ritrovati in piazza a farci delle domande. Era estate, e gli amministratori non c’erano. Poi, a settembre, parlammo col sindaco Taglialatela e scoprimmo Taverna del Re. Le balle, all’epoca, erano scoperte, per questo puzzavano. Vedevamo stormi di gabbiani volare verso l’interno. Poi Bertolaso ci spiegò perché. Anche i topi morivano, quando sversavano questi rifiuti”.
Ex lavoratrice delle poste, quando rimase incinta fu costretta a lasciare l’impiego e si dedicò alla vita da mamma. Ha una figlia di 25 anni che vive a Firenze e una di 21 tornata qui dalla toscana: “Ero felice che se ne fossero andate, in verità”. Suo padre è morto di tumore al polmone, sua figlia è malata di tiroide, come sua madre, come lei. Persino sua cognata, è ammalata. Quattro casi in cento metri e la chiamano ancora coincidenza. “Lo faccio per chi verrà”, dice, e ti auguri che il buon dio, se esiste, le dia la forza per altri cent’anni. Ti chiedi se tu ce la faresti a combattere così.
Sa che il cantalupo non assorbe l’arsenico, che le zucchine sono le più sensibili ai veleni (e infatti qui non crescono). Parla di acidi e veleni come se fosse una scienziata. Sa tutto del tufo fratturato, che non trattiene il percolato, a differenza di quello integro, che fa da barriera, finché regge. A Giugliano la chiamano tutti per nome, dai custodi delle discariche ai contadini. “Io sono quella che si è data fuoco a Taverna del re”, dice a un contadino che pretende di spiegarle cosa accade in questa terra. “Lo so, signora”, le risponde lui. E abbassa la testa in segno di rispetto. Lucia non ha bisogno di litigare con nessuno, intimorisce anche solo se ti guarda, se sei dall’altra parte della barricata. Quando va a colloquio con le istituzioni le mette in crisi, e infatti quasi non la ricevono più. È un personaggio troppo ingombrante per loro, fa paura, le mette in soggezione.
“Ci autofinanziamo le malattie pagando le tasse” – ti dice, gettandoti in faccia l’amara realtà – “Se andiamo a parlare con le istituzioni ci chiudono le porte in faccia. Noi siamo un ostacolo, per loro: senza la nostra voce nessuno avrebbe saputo niente di ciò che succede qui”. Poi si avvicina, quasi minacciosa: “Dove sono il Wwf, e Greenpeace, che fanno?”. È incazzata nera, Lucia. E noi con lei. Insieme a lei. Come con Enzo Tosti e chissà quanti altri angeli che incontreremo nel nostro viaggio nella terra dei veleni.
Sono spossata, stanca, alla fine della mattinata insieme e glielo dico. “Per noi ogni giorno è spossante”, mi risponde. E, come quando le ho porto la mascherina, mi fa sentire piccolissima. Ecco, da grande voglio essere come Lucia. Una donna roccia. Provate a schiacciarla, vi schiacceremo noi.

FOTO DI FRANCESCO BASSINI

(da http://www.paralleloquarantuno.it)

Sepolta, interrata, a colline. A Giugliano monnezza ovunque

Il viaggio di Parallelo41 nella Terra dei fuochi continua. Dopo Orta di Atella, siamo stati a Giugliano, dove il disegno criminale è evidente appena ci metti piede. Ecco, l’immagine più appropriata è questa: mentre Orta è il regno dell’anarchia, a Giugliano tutto obbedisce a un piano predeterminato. 2Qui, il genocidio è stato studiato a tavolino, da clan camorristici, grandi e piccole imprese trasversalmente bipartisan nord/sud, amministratori delegati e istituzioni.
130mila abitanti per un’area di 94 kmq collegata alla fascia costiera (Varcaturo, Lago Patria) dall’asse mediano. Ci sono 5-6 roghi tossici al giorno. Una terra che un tempo era definita la “Piana Campana”, perché tutta pianeggiante, che oggi è un agglomerato di colline marroni piene di rifiuti. È la piana delle discariche, quelle di Vassallo, per intenderci. “L’emergenza rifiuti è servita a nascondere questo”: esordiscono così i nostri accompagnatori, Lucia De Cicco, Giovanni Caruso e Christian Gentile, di “L’E.C.O. della fascia costiera”, associazione che si occupa, da anni, del controllo del territorio. Ci spiegano che la Sogesid, soggetto attuatore del ministero dell’Ambiente per le bonifiche, ha censito circa 300 pozzi nella zona. Di 200 pozzi analizzati, solo 3 sono risultati non contaminati da veleni come cromo, cadmio e arsenico, tanto per dirne alcuni. Tre pozzi soltanto sono sani. Su 200.
I pozzi avvelenati sono stati interdetti con un’ordinanza comunale che viene disattesa ogni giorno. Qui, dove vige il divieto di coltivazione, irrigazione e raccolta, i contadini coltivano, irrigano e raccolgono, ma, soprattutto, vendono: al mercato ortofrutticolo di Giugliano, il secondo in Italia dopo quello di Milano, dove si movimentano ogni anno un milione di quintali di frutta e verdura, dove, secondo la commissione prefettizia, ci sarebbe “la più completa assenza di controlli”, da dove, in sintesi, la maggior parte di ciò che mangiamo arriva sulle nostre tavole. Duecento ettari di terra deputati a monnezza, tutti sotto sequestro, eppure aperti. Un controsenso da mettere i brividi.
È qui, a Ponte Riccio, dove fino a poco tempo fa sorgeva un campo nomadi, che le prostitute aspettano i loro clienti in mezzo alla strada, si riparano dal sole con l’ombrello e sono circondate dalla spazzatura. La “strada della vergogna”, dove tutti e due gli argini sono ricoperti di rifiuti. E capita che, nel verde della sterpaglia, trovi cumuli di spazzatura ricoperti da teloni bianchi che risalgono al 2008. Qualche balla è stata anche incendiata. I teloni sono stati messi lì per nascondere la vergogna. Monnezza interrata, monnezza sepolta, monnezza ovunque, monnezza nascosta. Come polvere sotto un tappeto, in enormi colline. In mezzo a campi di albicocche e pesche.
Procediamo verso la “Resit”, l’area di cui parla il geologo Giovanni Balestri quando dice che la falda idrica sottostante, nel 2064, sarà compromessa da migliaia di tonnellate di veleni colati attraverso il tufo. Qui, i clan hanno sversato, nel corso degli anni, 341mila tonnellate di rifiuti tossici, tra cui 30.600 tonnellate di veleni chimici provenienti dall’Acna di Cengio. Ora sono sotto terra, a meno di dodici metri. Tutto dietro false attestazioni e sembianze di legalità. Tutto sotto gli occhi complici delle istituzioni campane e nazionali. Quando tutto il tufo avrà ceduto, non ci saranno più pareti a dividere i veleni dalla falda acquifera.
Lungo la strada, a un tratto, vedi una montagna di rifiuti a ridosso di un enorme campo di pomodoro. Nella cava X della Resit la terra è stata smossa di recente. Pochi giorni fa hanno sotterrato la monnezza per nascondere le fumarole che si alzano quando piove e che sono la rappresentazione dei veleni con cui altri uomini come noi hanno violentato questa terra. Il fatto è che i riflettori puntati su questa porzione di terreno non fanno comodo ai “grandi capi” e allora, per coprire le fumarole, ci hanno buttato sopra terreno fresco. Questa è la loro idea di messa in sicurezza: coprire le fumarole. Non voglia mai dio che uno che passa di qua veda il fumo salire dal terreno ricolmo di spazzatura.
Camminiamo su un’enorme montagna di monnezza, la terra è morbida sotto i nostri piedi, la puzza mefitica, respiriamo veleno attraverso la mascherina. Sembra la Luna e ci stiamo camminando sopra. Tutto intorno campi di pomodori. Balle di rifiuti urbani Rsu sversati qui nel 2008, in piena emergenza rifiuti. La puzza di percolato penetra nelle narici. Non si respira. Eppure cinguettano gli uccelli e le farfalle svolazzano sull’enorme collina. È surreale, quasi affascinante fermarsi su quell’enorme montagna a pensare a cosa è capace di arrivare la cattiveria umana, la volontà criminale. Passa un trattore con dei meloni che profumano di buono. Ti guardi intorno e ti viene la nausea al solo pensiero di mangiare frutta e verdura.
Cava Z Resit, ingresso principale: i custodi dipendenti del Consorzio Unico di Bacino 3 sono da dieci mesi senza stipendio. Stanno qua tutto il giorno a presidiare l’area. Tre di loro sono morti di cancro. “Io sto respirando veleno per pochi spiccioli, quando me li danno – dice uno di loro – E comunque, quello che sto respirando adesso il Padreterno me lo farà pagare caro”. All’interno, una cisterna che dovrebbe raccogliere il percolato ma che invece, pare, contiene sostanze tossiche (la cisterna verde nella foto). Lo sanno tutti, ma tutti tacciono. E colpisce, il silenzio, sferza. Come il canto dei grilli. Sembra aperta campagna, invece è l’inferno. “Fanno prelievi da anni ma non ci dicono niente – si lamenta un custode – e io non so se oggi devo respirare oppure no”. Sulla parte posteriore della cava c’è un deposito di balle: furono oggetto del processo Impregilo-Bassolino. Un campo di pesche tra le discariche, tra la Resit e le balle e, alle spalle, un’altra discarica. Il paesaggio campestre, da queste parti, è così. Un’enorme discarica a cielo aperto. E noi la respiriamo.
Siamo in località Scafarea. Campi di cantalupi a ridosso delle balle. Per carità, state tranquilli: pare che il cantalupo non assorba l’arsenico, magari le altre porcherie sì, ma con il veleno dei veleni state sereni. Balle nere tutto intorno. Sembrano fantasmi, come quell’uomo nero che da piccoli i nostri genitori ci sventolavano davanti agli occhi per metterci paura e farci ubbidire. Qui l’uomo nero sovrasta, ci ricorda quant’è forte, potente, tentacolare e sotterraneo, come i veleni che ci ammazzano ogni giorno, nascosto, eppure talmente visibile e reale che possiamo toccarlo. Eccola, la testimonianza del fallimento della politica, ciò che sta lì a ricordare a questa gente, ogni giorno, quanta terra hanno sottratto. In origine qui, doveva essere stoccato il “Cdr”, poi, però, è successo che ci hanno sversato il “tal quale”, è successo che è iniziato il processo di putrefazione. Se ne sono accorti così che qualcosa non funzionava, nel 2007, dalla puzza. “Noi non abbiamo frontiere – ci raccontano i volontari – Le nostre frontiere sono le discariche”.
In lontananza vediamo un rogo. Il fumo è nero, di plastica e gomma bruciata. Andiamo a vedere cosa succede e ci ritroviamo nell’area della Gesem, una delle poche discariche a norma. Proprio lì sorge un campo nomadi costato 400 milioni di euro: soldi buttati nella spazzatura, è proprio il caso di dirlo, visti i cumuli di monnezza su cui giocano i bambini. Bambini bellissimi. Ce n’è uno biondo biondo con gli occhi scuri e la pelle sporca che gioca con una fionda rudimentale. Qui tutti i bambini hanno eritemi sulla pelle, perché camminano sui rifiuti. E lo vediamo poco distante, l’autore del rogo: è un rom, un bosniaco. Ha appiccato un incendio a dei tubi e li rimesta con una mazza di legno. “Lasciami lavorare – dice quando ci avviciniamo – tu fai il tuo lavoro e io faccio il mio”. Il suo lavoro è tirare fuori il rame dai cavi, per questo brucia le guaine di gomma. E, per farlo, guadagna 20 euro. Ci chiede una mazzetta perché ci lascia fotografare il rogo. Gli diamo una mascherina, gli diciamo che è meglio questa della mazzetta: “Lascia stare, meglio i soldi, hai fatto le foto”, ci risponde.
A destra lo Stir, in fondo la zona Asi, dove c’è un altro campo rom. Ai piedi di un’altra enorme montagna di rifiuti celata sotto il terreno, un eucalipto dall’odore bellissimo ci ricorda quant’era bella la natura. L’eucalipto fa bene ai polmoni, ma qui anche i fiori puzzano.
Poco più avanti, una masseria con una pozza di percolato. Qui, tempo fa, i volontari trovarono stoccati dei prodotti alimentari scaduti. Sopra il pozzo l’aria è bollente, la mano quasi si brucia. A volte, da qui, esce anche il fumo. Sono i veleni che reclamano aria, quella che a questa gente è stata rubata, in uno stupro collettivo senza pudore ma con innumerevoli testimoni illustri. A poca distanza dalla pozza di percolato, un pozzo per l’irrigazione delle terre. Tutto intorno, le piante e gli alberi stanno morendo. Ci sono anche due fabbriche di fuochi, nelle vicinanze. Nel terreno hanno trovato antimonio e vanadio, le sostanze per fabbricare i fuochi d’artificio: i terreni muoiono, ma le fabbriche restano ancora lì. Anche qui c’è amianto alla luce del sole.
Ed eccoci arrivati alla memoria storica. Taverna del re. Dove svettano le “ecopalle” della politica. Un’area sormontata da piramidi di rifiuti grande quanto 388 campi di pallone, immaginate l’isola di Procida interamente coperta di spazzatura ed avrete l’esatta dimensione della vastità dello scempio. Si chiama “Masseria del Re” perché era la residenza preferita del sovrano. Doveva essere un sito di stoccaggio provvisorio, invece è qui dal 2001. Sono le piramidi di monnezza che rappresentano la presa per i fondelli dell’intero popolo campano. Le chiamano “eco” ma contengono rifiuti organici, plastica, cadaveri di animali, tutto. Si tratta di “tal quale”: è un immenso serbatoio di denaro per imprese salite agli onori della cronaca come la Fibe, tra affitti, appalti, subappalti e vigilanza privata.
In fondo alla strada, tra due enormi distese di piramidi di monnezza, una masseria isolata,quella di Salvatore Picone, l’unico che non ha voluto cedere il suo terreno e la sua vita, ma ha preferito farselo espropriare. Incontriamo un contadino, Raffaele Vitale: “È all’Area Vasta che c’è il ‘guaio’, andasse a scavare là il magistrato”, dice. Ci racconta che un suo amico camionista veniva qui dal Nord a sversare rifiuti scortato dalla polizia. “Di che parliamo? Se ti scorta la polizia per non farti fermare sull’autostrada vuol dire che non c’è niente da fare”. Sono tutti colpevoli di questo scempio, tutti, ma per Raffaele il colpevole è solo uno: “Il vero responsabile è Bassolino –dice – Il cemento, qui, arrivava da Afragola, con tutte le ditte presenti sul territorio, arrivava solo da Afragola”. Gli chiediamo in che stato sono la sua frutta e la sua acqua. “Faccio fare controlli, perché l’acqua io la bevo”, ci dice. Ma controlla anche la presenza di metalli pesanti? “No, quella la devi chiedere a parte, costa”. Ci racconta che l’Arpac fa controlli nell’Area Vasta ma che qui non sono mai venuti: ”E a che servirebbe? Non ti dicono mai quello che trovano”. I volontari gli lasciano il bigliettino da visita dell’associazione: “Facciamoci sentire tutti assieme”, gli dicono.
Ci rimettiamo in cammino verso casa, verso la doccia, verso quella che ormai è chiaro a tutti noi che non è la salvezza. Torneremo dai nostri figli, nei nostri bei quartieri residenziali dove al massimo trovi un cassonetto traboccante di rifiuti urbani, ma saremo tutti ugualmente contaminati. Lo siamo già. E mentre la macchina cammina, guardi fuori dal finestrino e vedi con quanta prepotenza la natura cerca di riprendersi ciò che le hanno tolto. Una campagna smisurata. C’è persino un’area che rifornisce la Bonduelle. Qui, una volta, i volontari hanno visto un camion spagnolo venire a prelevare i prodotti, quelli che poi arrivano sulle nostre tavole con altre etichette. Ci sono le foto, loro documentano tutto, da anni. Che se volessi stare dietro alle loro ricerche non ti basterebbe una vita. Un camion spagnolo che viene a prendere i prodotti avvelenati. Grano a distese. Non si salva nessuno. Neanche noi.

FOTO DI FRANCESCO BASSINI

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Orta di Atella: anche un cimitero di pecore sotto i rifiuti

Orta di Atella, zona Viggiano, sotto la superstrada Caivano-Arzano. Si tratta di un’area sottoposta a sequestro dopo le innumerevoli denunce del Laboratorio Massimo Stanzione. Due giorni fa la strada era chiusa, ieri vi si accedeva liberamente. Nessun controllo, nessun presidio, piena libertà di agire. ORTADIATELLA030713_030Amianto in tegole, amianto sbriciolato. L’amianto ci ha accompagnati in tutto il nostro viaggio nella Terra dei Fuochi ma qui ce n’è talmente tanto da perderne la misura. Una zona adibita a cimitero di pecore, come ci spiega Enzo Tosti. Ci buttano i rifiuti, sulle carcasse delle pecore, e poi danno fuoco a tutto. C’è il corpo di una bestia buttato lì annerito dal fumo (poco più in là, in una cassetta di legno, avevamo visto la carcassa incendiata di un cane). Ma non ci sono solo resti di animali, c’è un altro mistero: quintali di prugne, apparentemente ancora buone da mangiare, gettate sotto i piloni della superstrada. Perché? Le ossa delle pecore sono state coperte dalla spazzatura dopo le denunce di Enzo Tosti. Denunce che sono andate avanti per un anno e mezzo prima di vedere l’area sottoposta a sequestro. Ma che senso ha sequestrare senza poi presidiare?

FOTO DI FRANCESCO BASSINI

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