Il viaggio di Parallelo41 nella Terra dei fuochi continua. Dopo Orta di Atella, siamo stati a Giugliano, dove il disegno criminale è evidente appena ci metti piede. Ecco, l’immagine più appropriata è questa: mentre Orta è il regno dell’anarchia, a Giugliano tutto obbedisce a un piano predeterminato. Qui, il genocidio è stato studiato a tavolino, da clan camorristici, grandi e piccole imprese trasversalmente bipartisan nord/sud, amministratori delegati e istituzioni.
130mila abitanti per un’area di 94 kmq collegata alla fascia costiera (Varcaturo, Lago Patria) dall’asse mediano. Ci sono 5-6 roghi tossici al giorno. Una terra che un tempo era definita la “Piana Campana”, perché tutta pianeggiante, che oggi è un agglomerato di colline marroni piene di rifiuti. È la piana delle discariche, quelle di Vassallo, per intenderci. “L’emergenza rifiuti è servita a nascondere questo”: esordiscono così i nostri accompagnatori, Lucia De Cicco, Giovanni Caruso e Christian Gentile, di “L’E.C.O. della fascia costiera”, associazione che si occupa, da anni, del controllo del territorio. Ci spiegano che la Sogesid, soggetto attuatore del ministero dell’Ambiente per le bonifiche, ha censito circa 300 pozzi nella zona. Di 200 pozzi analizzati, solo 3 sono risultati non contaminati da veleni come cromo, cadmio e arsenico, tanto per dirne alcuni. Tre pozzi soltanto sono sani. Su 200.
I pozzi avvelenati sono stati interdetti con un’ordinanza comunale che viene disattesa ogni giorno. Qui, dove vige il divieto di coltivazione, irrigazione e raccolta, i contadini coltivano, irrigano e raccolgono, ma, soprattutto, vendono: al mercato ortofrutticolo di Giugliano, il secondo in Italia dopo quello di Milano, dove si movimentano ogni anno un milione di quintali di frutta e verdura, dove, secondo la commissione prefettizia, ci sarebbe “la più completa assenza di controlli”, da dove, in sintesi, la maggior parte di ciò che mangiamo arriva sulle nostre tavole. Duecento ettari di terra deputati a monnezza, tutti sotto sequestro, eppure aperti. Un controsenso da mettere i brividi.
È qui, a Ponte Riccio, dove fino a poco tempo fa sorgeva un campo nomadi, che le prostitute aspettano i loro clienti in mezzo alla strada, si riparano dal sole con l’ombrello e sono circondate dalla spazzatura. La “strada della vergogna”, dove tutti e due gli argini sono ricoperti di rifiuti. E capita che, nel verde della sterpaglia, trovi cumuli di spazzatura ricoperti da teloni bianchi che risalgono al 2008. Qualche balla è stata anche incendiata. I teloni sono stati messi lì per nascondere la vergogna. Monnezza interrata, monnezza sepolta, monnezza ovunque, monnezza nascosta. Come polvere sotto un tappeto, in enormi colline. In mezzo a campi di albicocche e pesche.
Procediamo verso la “Resit”, l’area di cui parla il geologo Giovanni Balestri quando dice che la falda idrica sottostante, nel 2064, sarà compromessa da migliaia di tonnellate di veleni colati attraverso il tufo. Qui, i clan hanno sversato, nel corso degli anni, 341mila tonnellate di rifiuti tossici, tra cui 30.600 tonnellate di veleni chimici provenienti dall’Acna di Cengio. Ora sono sotto terra, a meno di dodici metri. Tutto dietro false attestazioni e sembianze di legalità. Tutto sotto gli occhi complici delle istituzioni campane e nazionali. Quando tutto il tufo avrà ceduto, non ci saranno più pareti a dividere i veleni dalla falda acquifera.
Lungo la strada, a un tratto, vedi una montagna di rifiuti a ridosso di un enorme campo di pomodoro. Nella cava X della Resit la terra è stata smossa di recente. Pochi giorni fa hanno sotterrato la monnezza per nascondere le fumarole che si alzano quando piove e che sono la rappresentazione dei veleni con cui altri uomini come noi hanno violentato questa terra. Il fatto è che i riflettori puntati su questa porzione di terreno non fanno comodo ai “grandi capi” e allora, per coprire le fumarole, ci hanno buttato sopra terreno fresco. Questa è la loro idea di messa in sicurezza: coprire le fumarole. Non voglia mai dio che uno che passa di qua veda il fumo salire dal terreno ricolmo di spazzatura.
Camminiamo su un’enorme montagna di monnezza, la terra è morbida sotto i nostri piedi, la puzza mefitica, respiriamo veleno attraverso la mascherina. Sembra la Luna e ci stiamo camminando sopra. Tutto intorno campi di pomodori. Balle di rifiuti urbani Rsu sversati qui nel 2008, in piena emergenza rifiuti. La puzza di percolato penetra nelle narici. Non si respira. Eppure cinguettano gli uccelli e le farfalle svolazzano sull’enorme collina. È surreale, quasi affascinante fermarsi su quell’enorme montagna a pensare a cosa è capace di arrivare la cattiveria umana, la volontà criminale. Passa un trattore con dei meloni che profumano di buono. Ti guardi intorno e ti viene la nausea al solo pensiero di mangiare frutta e verdura.
Cava Z Resit, ingresso principale: i custodi dipendenti del Consorzio Unico di Bacino 3 sono da dieci mesi senza stipendio. Stanno qua tutto il giorno a presidiare l’area. Tre di loro sono morti di cancro. “Io sto respirando veleno per pochi spiccioli, quando me li danno – dice uno di loro – E comunque, quello che sto respirando adesso il Padreterno me lo farà pagare caro”. All’interno, una cisterna che dovrebbe raccogliere il percolato ma che invece, pare, contiene sostanze tossiche (la cisterna verde nella foto). Lo sanno tutti, ma tutti tacciono. E colpisce, il silenzio, sferza. Come il canto dei grilli. Sembra aperta campagna, invece è l’inferno. “Fanno prelievi da anni ma non ci dicono niente – si lamenta un custode – e io non so se oggi devo respirare oppure no”. Sulla parte posteriore della cava c’è un deposito di balle: furono oggetto del processo Impregilo-Bassolino. Un campo di pesche tra le discariche, tra la Resit e le balle e, alle spalle, un’altra discarica. Il paesaggio campestre, da queste parti, è così. Un’enorme discarica a cielo aperto. E noi la respiriamo.
Siamo in località Scafarea. Campi di cantalupi a ridosso delle balle. Per carità, state tranquilli: pare che il cantalupo non assorba l’arsenico, magari le altre porcherie sì, ma con il veleno dei veleni state sereni. Balle nere tutto intorno. Sembrano fantasmi, come quell’uomo nero che da piccoli i nostri genitori ci sventolavano davanti agli occhi per metterci paura e farci ubbidire. Qui l’uomo nero sovrasta, ci ricorda quant’è forte, potente, tentacolare e sotterraneo, come i veleni che ci ammazzano ogni giorno, nascosto, eppure talmente visibile e reale che possiamo toccarlo. Eccola, la testimonianza del fallimento della politica, ciò che sta lì a ricordare a questa gente, ogni giorno, quanta terra hanno sottratto. In origine qui, doveva essere stoccato il “Cdr”, poi, però, è successo che ci hanno sversato il “tal quale”, è successo che è iniziato il processo di putrefazione. Se ne sono accorti così che qualcosa non funzionava, nel 2007, dalla puzza. “Noi non abbiamo frontiere – ci raccontano i volontari – Le nostre frontiere sono le discariche”.
In lontananza vediamo un rogo. Il fumo è nero, di plastica e gomma bruciata. Andiamo a vedere cosa succede e ci ritroviamo nell’area della Gesem, una delle poche discariche a norma. Proprio lì sorge un campo nomadi costato 400 milioni di euro: soldi buttati nella spazzatura, è proprio il caso di dirlo, visti i cumuli di monnezza su cui giocano i bambini. Bambini bellissimi. Ce n’è uno biondo biondo con gli occhi scuri e la pelle sporca che gioca con una fionda rudimentale. Qui tutti i bambini hanno eritemi sulla pelle, perché camminano sui rifiuti. E lo vediamo poco distante, l’autore del rogo: è un rom, un bosniaco. Ha appiccato un incendio a dei tubi e li rimesta con una mazza di legno. “Lasciami lavorare – dice quando ci avviciniamo – tu fai il tuo lavoro e io faccio il mio”. Il suo lavoro è tirare fuori il rame dai cavi, per questo brucia le guaine di gomma. E, per farlo, guadagna 20 euro. Ci chiede una mazzetta perché ci lascia fotografare il rogo. Gli diamo una mascherina, gli diciamo che è meglio questa della mazzetta: “Lascia stare, meglio i soldi, hai fatto le foto”, ci risponde.
A destra lo Stir, in fondo la zona Asi, dove c’è un altro campo rom. Ai piedi di un’altra enorme montagna di rifiuti celata sotto il terreno, un eucalipto dall’odore bellissimo ci ricorda quant’era bella la natura. L’eucalipto fa bene ai polmoni, ma qui anche i fiori puzzano.
Poco più avanti, una masseria con una pozza di percolato. Qui, tempo fa, i volontari trovarono stoccati dei prodotti alimentari scaduti. Sopra il pozzo l’aria è bollente, la mano quasi si brucia. A volte, da qui, esce anche il fumo. Sono i veleni che reclamano aria, quella che a questa gente è stata rubata, in uno stupro collettivo senza pudore ma con innumerevoli testimoni illustri. A poca distanza dalla pozza di percolato, un pozzo per l’irrigazione delle terre. Tutto intorno, le piante e gli alberi stanno morendo. Ci sono anche due fabbriche di fuochi, nelle vicinanze. Nel terreno hanno trovato antimonio e vanadio, le sostanze per fabbricare i fuochi d’artificio: i terreni muoiono, ma le fabbriche restano ancora lì. Anche qui c’è amianto alla luce del sole.
Ed eccoci arrivati alla memoria storica. Taverna del re. Dove svettano le “ecopalle” della politica. Un’area sormontata da piramidi di rifiuti grande quanto 388 campi di pallone, immaginate l’isola di Procida interamente coperta di spazzatura ed avrete l’esatta dimensione della vastità dello scempio. Si chiama “Masseria del Re” perché era la residenza preferita del sovrano. Doveva essere un sito di stoccaggio provvisorio, invece è qui dal 2001. Sono le piramidi di monnezza che rappresentano la presa per i fondelli dell’intero popolo campano. Le chiamano “eco” ma contengono rifiuti organici, plastica, cadaveri di animali, tutto. Si tratta di “tal quale”: è un immenso serbatoio di denaro per imprese salite agli onori della cronaca come la Fibe, tra affitti, appalti, subappalti e vigilanza privata.
In fondo alla strada, tra due enormi distese di piramidi di monnezza, una masseria isolata,quella di Salvatore Picone, l’unico che non ha voluto cedere il suo terreno e la sua vita, ma ha preferito farselo espropriare. Incontriamo un contadino, Raffaele Vitale: “È all’Area Vasta che c’è il ‘guaio’, andasse a scavare là il magistrato”, dice. Ci racconta che un suo amico camionista veniva qui dal Nord a sversare rifiuti scortato dalla polizia. “Di che parliamo? Se ti scorta la polizia per non farti fermare sull’autostrada vuol dire che non c’è niente da fare”. Sono tutti colpevoli di questo scempio, tutti, ma per Raffaele il colpevole è solo uno: “Il vero responsabile è Bassolino –dice – Il cemento, qui, arrivava da Afragola, con tutte le ditte presenti sul territorio, arrivava solo da Afragola”. Gli chiediamo in che stato sono la sua frutta e la sua acqua. “Faccio fare controlli, perché l’acqua io la bevo”, ci dice. Ma controlla anche la presenza di metalli pesanti? “No, quella la devi chiedere a parte, costa”. Ci racconta che l’Arpac fa controlli nell’Area Vasta ma che qui non sono mai venuti: ”E a che servirebbe? Non ti dicono mai quello che trovano”. I volontari gli lasciano il bigliettino da visita dell’associazione: “Facciamoci sentire tutti assieme”, gli dicono.
Ci rimettiamo in cammino verso casa, verso la doccia, verso quella che ormai è chiaro a tutti noi che non è la salvezza. Torneremo dai nostri figli, nei nostri bei quartieri residenziali dove al massimo trovi un cassonetto traboccante di rifiuti urbani, ma saremo tutti ugualmente contaminati. Lo siamo già. E mentre la macchina cammina, guardi fuori dal finestrino e vedi con quanta prepotenza la natura cerca di riprendersi ciò che le hanno tolto. Una campagna smisurata. C’è persino un’area che rifornisce la Bonduelle. Qui, una volta, i volontari hanno visto un camion spagnolo venire a prelevare i prodotti, quelli che poi arrivano sulle nostre tavole con altre etichette. Ci sono le foto, loro documentano tutto, da anni. Che se volessi stare dietro alle loro ricerche non ti basterebbe una vita. Un camion spagnolo che viene a prendere i prodotti avvelenati. Grano a distese. Non si salva nessuno. Neanche noi.
FOTO DI FRANCESCO BASSINI
(da http://www.paralleloquarantuno.it)